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 2009  dicembre 16 Mercoledì calendario

ANTONIO ROSSITTO PER PANORAMA 16 DICEMBRE 2009

Se questo è un secondo grado Marcello Dell’Utri e i suoi avvocati contestano l’irritualità con cui il pentito-testimone Gaspare Spatuzza è stato inserito in un processo d’appello che avrebbe dovuto trattare di fatti totalmente diversi. Proprio mentre la difesa segnava molti punti a proprio favore.

«Quello del Canale 5» e «il nostro compaesano». Il 4 dicembre 2009, nell’aula bunker del tribunale di Torino, il pentito Gaspare Spatuzza ha tentato di riscrivere la storia. Fra ricordi confusi, date approssimative, contraddizioni. Ma il senso delle sue parole è stato chiaro: dietro le stragi del 1992 e del 1993 ci sarebbero «quello del Canale 5», cioè Silvio Berlusconi, e il «nostro compaesano» Marcello Dell’Utri, senatore del Pdl. «Ci hanno messo il Paese nelle mani» avrebbe detto il boss Giuseppe Graviano, stretto nel suo cappotto blu, al fedele Spatuzza. L’incontro tra i due mafiosi avvenne alla fine del 1993, al bar Doney di Roma. Forza Italia però nacque solo a gennaio del 1994. Per cui l’assunto diventa: indebolito il sistema con le bombe, Berlusconi si presentò alle elezioni come il salvatore della patria.
Falso? Vero? Il nodo giuridico è un altro. Spatuzza introduce un nuovo tema: i mandanti delle stragi che funestarono l’Italia all’inizio degli anni Novanta. Fatti su cui già indagano le procure di Caltanissetta e Firenze. «Si rischia un altro dibattimento di primo grado» ha esordito in aula Alessandro Sammarco, uno dei legali di Dell’Utri. Invece il processo di appello al senatore, condannato nel dicembre 2004 a nove anni per «concorso esterno in associazione mafiosa», è alle battute finali. E la testimonianza del killer di Brancaccio rischia di ridefinirne i contorni. Proprio come epilogo di una fase di appannamento per l’accusa, segnata da una sequela di dinieghi e contestazioni. L’ultimo rifiuto è arrivato il 17 settembre 2009. Nino Gatto, il procuratore generale di Palermo, aveva chiesto di sentire Massimo Ciancimino, figlio dell’ex sindaco Vito. La Corte d’appello ha però rigettato la richiesta: «Dall’esame del contenuto dei due verbali di interrogatorio emerge un quadro confuso e oltremodo contraddittorio».
Non è stato acquisito nemmeno il frammento di un biglietto sequestrato nel 2005. Sostiene Massimo Ciancimino: sarebbe stato mandato dal boss Bernardo Provenzano a Berlusconi, per lagnarsi del trattamento riservato ai mafiosi e avere a disposizione una delle reti televisive del Cavaliere. Non ammissibile. Come l’intercettazione del 2003 tra Dell’Utri e Sara Palazzolo, la sorella di Vito Roberto, condannato a nove anni per associazione mafiosa: l’8 maggio del 2009 ne è stato respinto l’utilizzo. Nella conversazione, il politico concordava un appuntamento con la donna. Incontro che però non sarebbe mai avvenuto.
Sono finite nel cestino, qualche settimana dopo, anche le telefonate tra il senatore e Aldo Miccichè, un ex democristiano diventato imprenditore del petrolio. E altri nastri in cui due presunti mafiosi calabresi facevano riferimento al cofondatore di Forza Italia. La corte ha deciso di non sentire nemmeno Carlo Calvi, il figlio di Roberto: avrebbe parlato dei legami tra la politica e il crac del Banco ambrosiano.
Ma persino all’interno del dibattimento alcuni addebiti si sono affievoliti. Il 9 febbraio 2009 è stata interrogata Alessandra De Filippis. Era l’avvocato di Cosimo Cirfeta: il pentito, suicida in carcere, che ha accusato altri collaboratori di giustizia di avere concordato false dichiarazioni contro Berlusconi e Dell’Utri. Tesi poi ribaltata da Michele Oreste, ex collaboratore nello studio di De Filippis: Cirfeta mente, in cambio di favori promessi dal senatore. Invece De Filippis, in udienza, ha confermato la buona fede del pentito: «Credeva in quello che diceva. Ne aveva fatto la battaglia della vita».
Il colpo di scena più clamoroso era però arrivato un anno prima, il 15 marzo 2008. Un confronto tra il pentito Nino Giuffrè, ex reggente di Caccamo, e Maurizio Di Gati, boss dell’Agrigentino. Di Gati ha riferito dei colloqui con Vincenzo Virga, a capo del mandamento di Trapani: Giuffrè gli aveva parlato di un concambio tra voti e favori. L’interessato però ha seccamente negato: «Non ho mai detto che, se si fosse votato per Dell’Utri, sarebbero arrivati soldi per i nostri affari. Discorsi di natura politica non ne ho mai fatti» ha detto Giuffrè. E le parole di Giuffrè pesano parecchio: è uno dei pentiti più importanti e affidabili.
Qualche risultato l’hanno ottenuto le stesse indagini difensive. Si sono concentrate sull’incontro che sarebbe avvenuto a Milano, negli uffici che la Edilnord, la società fondata dal Cavaliere per costruire Milano 2, aveva in Foro Buonaparte. L’episodio è stato ricostruito dal pentito Francesco Di Carlo: tra 16 e 28 maggio 1974 i boss Stefano Bontate e Mimmo Teresi si sarebbero visti con Berlusconi e Dell’Utri. Da lì, secondo i pm, sarebbe partito il sodalizio durato un ventennio. Ma il rendez-vous, replicano gli avvocati, era quanto meno complicato da organizzare, se non altro per ragioni di impossibile ubiquità: «In quei 12 giorni Teresi e Bontate hanno partecipato a sei udienze di un processo in cui erano imputati» spiega Giuseppe Di Peri, uno dei legali del senatore. «Ed erano a Palermo in soggiorno obbligato».
Poi è arrivato Spatuzza. E Dell’Utri ha scoperto di essere anche un presunto stragista: «In questo modo, però» conclude Di Peri «le accuse diventano come le ciliegie: una tira l’altra».