Stefania Rossini, L’Espresso, 10 dicembre 2009, 10 dicembre 2009
STEFANIA ROSSINI PER L’ESPRESSO 10 DICEMBRE 2009
Albanese il comico educato Raccontare la realtà e "l’osceno che ci circonda", ma senza attacchi frontali. Parla l’artista-operaio. Che ha firmato una regia pure alla Scala di Milano. Colloquio con Antonio Albanese
Antonio Albanese è un uomo che cambia spesso. Cambia vita, mestieri, personaggi, generi e passioni. Operaio al tornio, comico di cabaret, regista di cinema, attore nel cinema altrui, interprete di testi teatrali di Camus o Brecht, scrittore dei suoi testi, inventore di figure grottesche che sanno raccontare, a loro volta, come cambia il paesaggio umano e politico di questo grottesco paese: il mite "Epifanio", il rozzo "Cetto Laqualunque", il sempre attuale "ministro della Paura". Con in più la capacità di non lasciarsi alle spalle le esperienze, ma di tenerle tutte all’erta per una nuova vita. L’ultima mutazione, che non intende dimenticare, si è consumata alla Scala di Milano dove a ottobre Albanese ha fatto la regia di "Le convenienze e inconvenienze teatrali", farsa in un atto di Gaetano Donizetti. Come fanno a volte gli artisti quando hanno già visto tutto, ha voluto sperimentare la lirica.
La Scala, l’opera: scelta curiosa per un comico.
«Al contrario, è una scelta fortunosa, ne sono uscito rigenerato. Ho scoperto una forma d’arte artigianale e completa, profondamente fisica. Una scelta curiosa semmai è quella di fare televisione».
Ma come? La tv le ha dato fama e successo.
«Le confesso che cerco disperatamente di non diventare famoso. una battuta, ma ha qualcosa di vero. La grande fama si conquista con la ripetizione, approfittando di quello che si ha già e proponendolo in quei luoghi televisivi enormi che mi hanno sempre spaventato. L’unica volta che ho provato a misurarmici è stato nello spettacolo di Celentano. Non era il mio spazio».
Qual è il suo spazio?
«Quello della qualità, una scelta che fa a cazzotti con i grandi numeri. Inoltre ho preso fin dall’inizio una strada piuttosto ambiziosa: raccontare l’attualità senza citare l’attualità. Per riuscirci, devi analizzare, capire, osservare coi tuoi occhi e con quelli di collaboratori con cui sei in sintonia, eliminare tante cose. Un lavoro lungo e faticosissimo».
Lei gioca a nascondersi. Sa bene che i suoi personaggi sono molto noti.
«Se è così, è perché da vent’anni racconto attraverso di loro la trasformazione antropologica di questo paese. Quando il mio industrialotto lombardo Perego dice "Noi nella mia famiglia lavoriamo tutti. Mio nonno ha fatto il capannone piccolo, mio padre il capannone grande, io il capannone grandissimo. Mio figlio si droga", fa ridere ma dice una verità agghiacciante che tutti riconoscono».
Come mai non si ricordano sue battute intorno a Berlusconi?
«Non l’ho nominato mai, neppure una volta. Io voglio raccontare da dove nasce il berlusconismo, illustrare l’osceno che ci circonda, non attaccare l’uomo. I comici non se lo possono più permettere».
Come sarebbe? Non è nella natura del comico la satira del potere?
«Non quella diretta e frontale, che insulta spudoratamente. La ritengo controproducente e penso che negli ultimi anni questo tipo di satira abbia convinto a votare Berlusconi almeno due milioni di italiani. Non si trattano con la satira problemi delicati che riguardano la giustizia e le sorti del paese. Noi comici non siamo educatori».
Che cosa siete?
«Forse angeli, come diceva qualcuno. Quindi dobbiamo riuscire a non farci censurare, altrimenti ci incateniamo ai tempi che viviamo. E perdiamo le ali».
La sua non sembra prudenza. Da dove le vengono convinzioni così ferme?
«Forse dalla mia famiglia, umile e onesta fino all’esagerazione, che mi ha insegnato a non far del male a nessuno, a non insultare mai. Forse dalla mia esperienza operaia...».
Sentiamo.
«Mio padre è un siciliano emigrato al Nord dove ha fatto il muratore. Io così sono nato a Olginate, fra lago e monti, vicino Lecco. A 15 anni, come era normale nel mio ambiente, sono stato mandato in fabbrica a lavorare: tornio, fresa, trapano radiale. Ci sono rimasto otto anni. Nessuno mi aveva mai presentato alternative».
Com’è riuscito a cambiare vita così radicalmente?
«All’improvviso, una sera, uno spettacolo teatrale mi ha folgorato. Ho scoperto che mi riempivo di gioia anche solo come spettatore. Qualche settimana più tardi frequentavo una scuoletta serale di recitazione. Dopo pochi mesi, ero ammesso all’Accademia d’arte drammatica di Milano. Avevo venduto l’auto per pagarmi l’affitto, ma il problema fu dire a mio padre che lasciavo il nostro mondo. "Cazzi tuoi", mi rispose. Oggi è contento, anche se considera il mestiere di attore pari a qualsiasi altro».
L’Accademia Paolo Grassi, ambientino piuttosto snob, l’ha messa a suo agio?
«Non direi, almeno non subito. Il primo anno è stato duro, ero isolato, l’estrazione diversa pesava come un macigno. Ma io non mollavo: spettacoli, mostre, letture furiose... fino a un’illuminazione: io avevo di più, non meno di altri. Io avevo i fondamentali di una cultura popolare che non impari sui libri perché è fatta di fisicità, umanità, ritmi, colori, parole che in certi ambienti non sono mai pronunciate».
La cultura popolare è un suo motivo ricorrente. Se ne serve ancora oggi?
« la pasta di cui è fatta la mia arte. E nell’arte altrui amo la genuinità, il rigore. Quando vedo uno spettacolo di Mozart con un allestimento composto di un’asta di Nagasawa che attraversa la scena e i cantanti che stanno lì, senza sapere come muoversi, penso che è tutta roba di un incredibile provincialismo. questo tipo di gusto che mi fa orientare anche in politica».
Dove lei è notoriamente di sinistra.
«Dolorosamente di sinistra, direi. Io ho sofferto quando ho visto esponenti di sinistra dare milioni di euro ad artisti mediocri che hanno allontanato il pubblico. Ma ho sofferto anche quando ho visto Franceschini, che pure ha fatto bene il segretario in un momento difficile, mettersi quelle calzette turchesi per adeguarsi ai sistemi degli altri. Non è serio. Bisogna ritrovare una propria immagine vera, ripartire da lontano».
Cioè le piace Bersani.
«Non lo conosco, mi piace l’idea che trasmette, di ponderatezza e serietà. Ma certo deve decollare, avere l’aria meno mesta. Ci piaccia o meno, siamo legati all’immagine. Lui ancora non ce l’ha».
Potrebbe farne un personaggio: segretario in cerca di look.
«Per ora riprendo il mio professore di sinistra, quello che non riusciva a bocciare nessuno perché non conosceva più gli argomenti che trattava. Mi sembra importante intervenire sulla situazione drammatica della scuola e della ricerca».
Il suo esilarante "ministro della Paura" nasce prima dell’attuale governo. A chi, tra quelli in carica, darebbe oggi quello scettro?
«C’è ampia scelta. Quella di impaurire per comandare è una strategia antica che si può fare in modo più o meno spregiudicato. Comunque, per non fare nomi, darei lo scettro a tutto il sistema, per esempio a tutti quelli che si sono permessi di privatizzare l’acqua. Ecco una cosa che fa veramente paura».
Che cosa invece l’allieta?
«Il mio lavoro, il gruppo di amici con cui costruisco i personaggi. Vorrei fare almeno qualche nome: Michele Serra, Giampiero Solari, e anche Piero Guerrera e Andrea Salerno. I personaggi rivivranno tutti nel prossimo spettacolo che coinciderà con i miei 20 anni di carriera. Gli amici hanno messo le radici nel mio cuore e nel mio campo».
Che vuol dire?
«Che ho comprato un terreno in Toscana, ci ho piantato 40 ulivi e ho dato ad ognuno il nome di un amico. C’è l’ulivo Michele, l’ulivo Andrea... fanno un buon olio».
C’è ancora qualche albero libero?
«Sì, perché aspetto molti altri amici. Ne incontro di continuo, anche alla Scala»