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 2009  dicembre 07 Lunedì calendario

Messina Denaro l’imprendibile- Ora manca solo lui all’appello: Matteo Messina Denaro, il «figlio d’arte» - il padre, «don Ciccio», fu capo della mafia trapanese - che ha trasformato Cosa Nostra strappandola alla tradizione del feudo per catapultarla nel mondo delle imprese

Messina Denaro l’imprendibile- Ora manca solo lui all’appello: Matteo Messina Denaro, il «figlio d’arte» - il padre, «don Ciccio», fu capo della mafia trapanese - che ha trasformato Cosa Nostra strappandola alla tradizione del feudo per catapultarla nel mondo delle imprese. A soli 47 anni, è rimasto l’unico in grado di gestire l’immenso territorio che racchiude il suo mandamento: Trapani, Alcamo, Mazara e Castelvetrano. Un potere destinato ad esercitare influenza anche a Palermo, dove lo tsunami investigativo ha sderenato l’organizzazione criminale. Gli sforzi degli investigatori sono da tempo concentrati sull’illustre latitante, che da 16 anni riesce a vanificare ogni tipo di indagine. Ma non è facile agguantarlo, questo boss che già nel 1998 (operazione «Belice» di squadra mobile trapanese e Sco) aveva scelto la via della «comunicazione essenziale»: pochi pizzini scarni e senza indicazioni compromettenti. «Non scrivete mai - consigliava Matteo ai suoi - il nome del latitante a cui vi rivolgete. Non parlate nelle auto perché potrebbero esserci le microspie, discutete sempre all’aperto e lontani dai telefoni. Toglietevi anche gli orologi». Cauto e diffidente, Matteo. Ancora di più oggi, che si avvia verso la piena maturità e deve in qualche modo dare un senso al soprannome che gli è stato dato: «Testa dell’acqua», cioè sorgente. Tutto deve discendere da lui. Sono lontani i tempi in cui lo inorgogliva esser chiamato «Diabolik», per via della passione per il fumetto ma anche perché seriamente cercava un’auto che - come quella del criminale immaginario - potesse montare delle mitragliatrici sotto i fari. Già, perchè Matteo - come tutti i boss che si rispettino - nasce uomo d’azione. Nel 1995, il padre ancora in vita, fa un «regalo di Natale» ai detenuti decretando la morte dell’agente di custodia Giuseppe Montalto. E nel settembre di tre anni prima si era unito ad un commando di prime firme di Cosa Nostra, Luca Bagarella e Giuseppe Graviano, per far fuori il vicequestore Rino Germanà. La risposta pronta del poliziotto, però, ebbe la meglio sui killer che dovettero battere in ritirata dopo un rocambolesco conflitto a fuoco sulla spiaggia di Mazara del Vallo. Quando muore don Ciccio, il padre, colto da infarto in latitanza, Matteo viene incoronato. Saluta il genitore con un necrologio da ”Padrino” e prende le redini della Cosa Nostra, diventando praticamente un mito. Notorietà alimentata anche dal passato non indifferente e dalle buone frequentazioni: le mangiate di ”cous cous” nei feudi della famiglia D’Alì-Staiti dove tuttavia non si ferma nel ruolo di campiere. Dirà il sen. Tonino D’Alì, futuro sottosegretario agli Interni: «E’ rimasto finché non si è scoperto chi era». E poi le cene alla Pineta di Selinunte, la passione per l’archeologia che si spinge fino a fargli tentare il furto del «Satiro Danzante», gioiello ellenistico ritrovato nel Canale di Sicilia. Una continua rappresentazione, la vita di Matteo: una donna, Francesca, che è anche la madre dell’unica figlia del boss. La piccola ha 12 anni e conosce il padre soltanto in fotografia, perchè quando è nata Matteo era già latitante. Poi, le altre donne. Si sa di un amore, Maria, ma anche di una Sonia alla quale arriva a confidare il senso della sua appartenenza a Cosa Nostra: «Sto combattendo per una cosa che non può essere capita. Ma un giorno si saprà chi stava dalla parte della ragione». Un ”pensiero grave” che forse è da mettere in relazione con la ”missione” intrapresa nel ”92 e ”93, prima a Capaci e via D’Amelio, poi a Roma, Firenze e Milano con le bombe assassine. Matteo vola a Roma per pianificare la campagna stragista, fa pedinamenti e cerca esplosivi ma trova anche il tempo di darsi allo shopping in via Condotti, in via Frattina e, la sera, a ballare in discoteca. E’ l’unico di quella direzione strategica ancora in libertà. E ancora operativo, tanto da esser considerato pedina di quella ”trattativa” che sta raccontando Ciancimino jr. Ecco, qui si entra nel settore delle amicizie pericolose di Matteo. Ombre che denunciano strane frequentazioni, come lo scambio di lettere con un ex sindaco di Castelvetrano che si firma Svetonio ma sembra esser manovrato da agenti senza divisa. In quella corrisponenza, maggio 2005, a firma Alessio, Matteo si lascia andare ai più disparati giudizi: «Craxi fu l’unico vero statista», «Chi ci governa, un volgare venditore di fumo». «Sono diventato il Malaussène di tutti e di tutto». Dice di condividere il giudizio di Jorge Amado sulla giustizia: «Infima, quando va a braccetto con la politica» e si ritrova con Toni Negri: «La giustizia italiana marcia e corrotta dalle fondamenta». Così la pensa Alessio/Matteo, che - tuttavia - sguazza nei soldi della sua mafia-impresa: fondi pubblici, impianti eolici, residence turistici, cemento e centri commerciali. Tutto senza fare estorsioni, perchè Matteo le imprese le vuole cooptare.