Bruno Ventavoli, La Stampa 10/12/09, 10 dicembre 2009
Kubrick, il genio della propaganda - Rapina a mano armata non incassò granché, ma piacque ai critici
Kubrick, il genio della propaganda - Rapina a mano armata non incassò granché, ma piacque ai critici. E Kubrick, che aveva 28 anni e per fare cinema tirava l’anima coi denti e investiva ogni danaro, pensò che un po’ di pubblicità non guastava. Insieme col socio produttore James Harris comprò di tasca propria una pagina su una rivista per divulgare i lusinghieri giudizi ricevuti, farsi conoscere, mostrarsi ben addentro a Hollywood. La United Artist s’infuriò e l’idea saltò. Col passare degli anni l’ex fotografo di Look che sognava di fare il regista divenne un genio riconosciuto. Non aveva più bisogno di propaganda. Anzi, poteva permettersi di snobbare il mondo. Ma fino in fondo alla sua vita fu sensibile a tutto l’apparato che circondava il film. Flani, manifesti, pressbook, merchandising, marketing: Kubrick ambiva a controllare qualunque cosa, inseguendo la bellezza dell’immagine e la riuscita commerciale del prodotto. Su questo aspetto meno noto è appena uscito Le carte di Kubrick (Enzo Sellerio, pp. 181, e35) che raccoglie saggi e un gran numero di bellissime immagini sul corredo promozionale delle varie pellicole. Il libro è curato da Umberto Cantone, che ha raccolto negli anni il materiale, con furia collezionistica, strappandolo al sicuro destino del macero. Kubrick, è noto, governava i set come un balzano tiranno, sapeva quando iniziava a girare, non quando finiva, provava e riprovava fino all’esasperazione. C’è chi sospetta che la frana dell’amore tra Cruise e Kidman sia iniziata proprio durante le riprese di Eyes Wide Shut, diventate una sorta di prigione psicodrammatica per colpa del demiurgo. Magari costringeva star e comparse ad attendere per ore all’addiaccio per rendere un’inquadratura di Barry Lyndon simile a un Hogarth o un Constable. Tanto per dire il tipo che era, un giorno, sul set di 2001: Odissea nello spazio, esaminò l’astronave che la troupe stava costruendo. Avevano sgobbato dieci settimane. Solerti e felici. Lui guardò lo sforzo e disse: «Mi spiace, non funziona. Ricostruiamo tutto». Le storie del cinema non danno conto della reazione forse scarsamente entusiasta dei collaboratori. Ma Kubrick era fatto così. Se poteva fare una cosa bene, la voleva fare meglio. In questo capriccio di perfezionismo, in questa ossessione di controllo totale sull’opera sapeva trasformarsi alla bisogna in copywriter pubblicitario, in grafico, in stratega del marketing, in architetto di campagne promozionali. Sperando di parlare al pubblico anche con quei mezzi. Con qualsiasi mezzo. All’inizio degli anni 50, per Paura e desiderio, spinse ad esempio per manifesti da B-movies. Fece fotografare appositamente Virginia Leith in un sensuale bikini di satin, circondandola di parole che mettevano in risalto peccato, sesso, passione. Ci fu il suo zampino nella Sue Lyon con gli occhiali a cuore sul manifesto di Lolita, così come nell’elmetto «Born to kill» usato per il poster di Full Metal Jacket. Orchestrò dettagliatamente il lancio pubblicitario di Arancia meccanica, e se diventò quello scandalo e quel successo che fu, probabilmente si deve anche alle sue provocatorie risorse. Per l’occasione pubblicò una sceneggiatura visuale, una sorta di cineromanzo, scegliendo personalmente 800 fotogrammi, accompagnati da didascalie, dialoghi, spiegazioni, nel tentativo ambizioso - unico forse nel cinema d’autore - di far gustare allo spettatore il film anche su carta. Quando finiva di montare pensava subito alle sale in cui uscire, se una non gli piaceva premeva per un’altra, perché catalogava anche gli incassi dei cinema. Faceva comprare mascherini speciali da spedire agli esercenti per proiettare in maniera filologicamente corretta. Alle anteprime per i giornalisti, provocava follie agli uffici stampa perché voleva dire la sua sull’orario di proiezione e persino sul rinfresco da offrire. Raccomandava cibo parco, quasi niente vino, grandi dosi di caffè, in modo che i critici non rischiassero abbiocchi e potessero concentrarsi su ciò che vedevano, spesso di lunga durata. Disegnò persino un modello di tazzine da caffè destinato ai giornalisti, con uno spazio per appoggiare il biscotto. Ma perché? gli chiesero. «Se stai guardando un film e prendi appunti, hai una sola mano libera». Con la metodicità di uno che aveva giocato tanto a scacchi, compilò una lista di 31 pagine su tutto ciò che bisognava fare per promuovere un film. E consegnò il fardello ai dirigenti della Warner. I manager lo guardarono gentili, mica potevano indiavolare il maestro, ma anche con allarmato scetticismo, perché temevano di scialar tempo a leggere quei dettami. Lui disse: «Leggete tutto, se c’è una sola cosa sbagliata la toglierò». Probabilmente non avrebbe tolto nulla, e si sarebbe pure inalberato all’eventuale critichella, essendo tanto schivo e burrascoso quanto intelligente. Ma rivelava con ciò di considerare la propria opera come un marchio, di cui era creatore, imbonitore, mercante, propalatore. Controllore dell’intera filiera, dal seno d’un’attrice alla fotobusta destinata al drive in di provincia. Pensava che il ghigno di Nicholson in Shining dovesse essere perfetto tanto nell’inquadratura quanto nel manifesto (fu sua l’idea di metterlo in primo piano mentre percuote ad accettate la porta e la moglie si mette le mani nei capelli per il terrore), perché prima di sedurre lo spettatore in sala bisogna convincerlo a entrare. Anche le critiche, in fondo, gli interessavano più per aumentare il pubblico, che per solleticare l’orgoglio. Un giorno lesse in una recensione che Full metal jacket era «forse il miglior film di guerra mai realizzato». Bella frase. Decise di metterla sui manifesti. Senza il «forse».