Francesca Caferri, la Repubblica 9/12/2009, 9 dicembre 2009
UN VELO ALLA CASA BIANCA
Dalia Mogahed è la prima donna con il velo ad essere entrata alla Casa Bianca. «Non posso dire di essere offesa quando mi definiscono così - dice - ma preferirei che l´attenzione fosse più sulle mie ricerche, sui motivi che mi hanno portato a lavorare per il presidente. E non sul mio velo. Ma ho imparato ad accettare il fatto che tutti guardino quello. E che i media, soprattutto quelli arabi, abbiano fatto di me il simbolo di una nuova Casa Bianca. Che include, non esclude. E che rispetta l´Islam. Non ho scelto di essere un simbolo: ma ho capito che posso usare questa cosa per far capire chi sono io e cosa fanno i musulmani in America».
Sorriso franco, capacità di mantenere la calma anche di fronte agli attacchi e di non emozionarsi: neanche quando ha ascoltato il suo presidente parlare al mondo arabo - seguendo i suggerimenti che lei aveva dato - proprio dall´Egitto, Paese che lei aveva lasciato bambina per iniziare l´avventura che l´ha condotta alla Casa Bianca.
Questa è Dalia Mogahed, 36 anni, consigliere del presidente Obama per i rapporti con il mondo musulmano e autrice di "Who speaks for Islam?" un libro negli Stati Uniti lo scorso anno monopolizzò per settimane l´attenzione di giornali e televisioni e che ora esce anche in Italia.
Alla Casa Bianca Mogahed è arrivata direttamente da Gallup, uno dei più prestigiosi centri di ricerca americani: qui a partire dal 2001 ha lavorato per cinque anni con il collega John Esposito al più grande studio mai condotto sui musulmani nel mondo. «In questi tempi di estreme tensioni e di ostilità crescente, pochi libri sarebbero potuti arrivare in un momento più giusto», disse quando i risultati delle loro ricerche furono pubblicati negli Stati Uniti il premio Nobel per la pace Desmond Tutu. «Il nostro scopo - racconta Mogahed - era spostare il dibattito sui musulmani in una direzione più costruttiva. A lungo si è detto che il conflitto fra le società a maggioranza musulmana e l´Occidente, e in particolare gli Stati Uniti, era inevitabile. Il libro invece dimostra che non è così. Lo fa facendo parlare la maggioranza silenziosa dei musulmani, quella che non riesce a far uscire la propria voce perché schiacciata da governi repressivi, da media che non li considerano abbastanza interessanti, o da pochi estremisti. E che dice che i punti di frizione fra mondo islamico e Occidente, che pure ci sono, si concentrano su politiche transitorie, non sui principi di fondo». E molte altre cose: che la cosa che i musulmani ammirano di più dell´Occidente è la libertà politica e di espressione, che la maggior parte degli intervistati - inclusi il 73% dei sauditi e l´89% degli iraniani - ritengono che le donne dovrebbero godere degli stessi diritti degli uomini. Che nei paesi a prevalenza musulmana la maggior parte della gente condanna i fatti dell´11 settembre 2001 e che la minoranza che li giustifica e ha un´opinione negativa degli Stati Uniti (7%) non è più religiosa rispetto al resto della popolazione. E così via.
Idee scontate, si potrebbe dire oggi, ma quando cominciarono a circolare nell´America di Bush suonavano rivoluzionarie. Tanto da catturare l´attenzione dell´allora senatore dell´Illinois Barack Obama. «Quando il libro uscì mandammo una copia a tutti i membri del Congresso - ricorda oggi Mogahed - compreso lui. Ci rispose con un biglietto di ringraziamento. Non lo conoscevamo, e non avevamo idea se lo avrebbe letto o no. Ma dopo qualche tempo una persona che era stata nel suo studio al Senato mi disse che il libro era lì, in bella evidenza. Lo trovai un segno incoraggiante».
Lo era così tanto che qualche mese dopo Obama, diventato Presidente, chiamò Mogahed a far parte del suo Adivorsy Council on Faith-based and neighborhood partnership e ad occuparne la poltrona più scottante: quella di consigliere per le relazioni con il mondo musulmano. Uno dei dossier chiave su cui si gioca il successo della presidenza Obama. «Sono stata sorpresa quando mi hanno chiamato. E naturalmente onorata. Il fatto che io porti il velo non ha pesato nella scelta: quello che il presidente vuole è ascoltare le voci dei musulmani, sapere cosa pensano davvero. Per capirli. E per coinvolgere i musulmani americani in una causa comune. Da subito l´impressione è stata che le mie idee, come quelle di tutti coloro che lavorano nel Consiglio, fossero accolte molto seriamente».
Il compito più delicato del consigliere finora è stato quello di tracciare le linee guida per il discorso del Cairo, con cui Obama ha cercato di colmare il divario che otto anni di presidenza Bush avevano creato fra gli Stati Uniti e il mondo arabo: «Ho cercato di pensare cosa era al cuore del conflitto e ho capito che dovevamo parlare di rispetto. E delle scelte politiche degli Stati Uniti che non piacciono ai musulmani. Non dovevamo "vendere" gli ideali dell´America, perché la gente li conosce e li ammira già, come dimostra la ricerca Gallup. Quello che serviva era cambiare approccio: riconoscere l´importanza non della nostra civiltà, ma di quella dei musulmani. La gente nel mondo arabo non aveva bisogno di essere adulata, ma riconosciuta. Di sentire che il loro punto di vista era ascoltato, non ignorato. Ho passato le mie idee a chi scrive i discorsi con il presidente: è stato bello vedere che sono state accolte».
Dopo la gloria sono aumentate le polemiche: già colpita al momento della sua nomina, Mogahed è stata presa di mira in patria per essere apparsa in un programma tv insieme a un membro di Hizbullah Tahrir, un gruppo considerato estremista e per una sua presunta difesa della sharia. « stata un´esperienza istruttiva - dice lei ora - io parlavo dei risultati della ricerca, e lui li ignorava per sfruttare solo le cose utili alle sue idee. Prima sono stata attaccata da lui, poi da quelli che mi hanno accusato di complicità con gli estremisti: il che dimostra che quanto sia forte il rifiuto di un vero dialogo, basato sui fatti».
Nel mondo arabo intanto si estesa anche a lei la delusione che molti provano nei confronti di Obama, colpevole di molti di non aver sbloccato il processo di pace in Medio Oriente e di aver scelto di inviare nuove truppe in Afghanistan: «Posso capire la delusione - spiega lei - ma quando il presidente si è insediato le aspettative erano così alte che riuscire a soddisfarle tutte era davvero difficile. Io continuo a credere che fra qualche tempo, quando guarderemo indietro a questo momento, lo vedremo ancora come una fase di miglioramento».
Lei la sua parte continua a farla: negli Stati Uniti "Who speaks for Islam?" è diventato un film che, dopo una prima riservata a politici e analisti al Dipartimento di Stato a Washington, sta girando con successo le sale e presto arriverà in televisione. In contemporanea il libro arriva in Europa: «Credo che sia positivo che questo lavoro esca da voi proprio ora - conclude Mogahed - il referendum in Svizzera potrebbe avere effetti anche sul resto del continente, e penso che sia un bene che ci siano dati scientifici a disposizione per smantellare miti infondati come quello di un Vecchio continente che starebbe cadendo nelle mani degli arabi. L´idea di Eurabia non riflette l´evidenza empirica. E inoltre l´Europa ha bisogno di forza di lavoro giovane per spingere l´economia: ed è un fatto che questa forza lavoro è costituita oggi in buona parte da immigrati o da cittadini di seconda generazione, le cui origini sono in paesi musulmani. L´essere una nazione che include, che è aperta al talento e al lavoro, ha reso gli Stati Uniti il paese più importante del mondo. Dovreste pensarci».