Edoardo Narduzzi, Milano Finanza 09/12/2009, 9 dicembre 2009
Ecco perché Dubai non può fallire - Per capire l’essenza dell’economia di Dubai e dei Paesi del Golfo si deve fare una levataccia per assistere a una corsa di dromedari
Ecco perché Dubai non può fallire - Per capire l’essenza dell’economia di Dubai e dei Paesi del Golfo si deve fare una levataccia per assistere a una corsa di dromedari. Alla mattina presto, prima che l’aria si riscaldi, una decina di animali del deserto vengono scatenati senza fantino in una corsa di velocità e di resistenza. Vince ovviamente il dromedario che taglia per primo il traguardo dopo una decina di minuti al galoppo. Una corsa senza strappi, senza le accelerazioni tipiche invece di quelle dei cavalli. I dromedari sono mezzofondisti, vanno in lenta progressione verso il traguardo, sbavando dalla fatica nel finale ma senza troppe sorprese: chi guadagna la testa dopo la partenza solitamente vince. una metafora dell’economia di Dubai: una volta che una corsa è stata lanciata, al traguardo comunque ci si arriva stringendo i denti e senza concedere strappi. E’ la cultura del medio e lungo termine che serve molto per capire perché gli eccessi di Dubai, che sicuramente ci sono stati, sono un incidente di percorso e poco più verso l’obiettivo finale: fare della città del Golfo una metropoli cosmopolita leader nei settori del turismo, della logistica e dei trasporti e anche nella finanza globalizzata. Gli immobili sono in fin dei conti investimenti infrastrutturali di passaggio verso l’obiettivo finale, traguardo che Dubai in qualche modo ha già raggiunto vista l’importanza del suo aeroporto internazionale, scalo di riferimento per chi vuole raggiungere Cina e India, cioè l’Asia che corre. Oppure basta guardare i milioni di turisti, in gran parte asiatici ma anche russi e anglofoni, che scelgono ormai la città del Golfo per una settimana di sole e di relax. Dubai è modernità, un po’ pacchiana, declinata secondo il gusto di un ipotetico consumatore globale. Che ovviamente non esiste ma che può essere idealizzato e a cui piacciono edifici avveniristici, metropolitane sospese nell’aria, quartiere residenziali firmati Armani con marmi e acqua ovunque. Insomma, un’offerta fatta di lusso e comodità per chi d’inverno lavora a Shanghai oppure per chi sbarca il lunario a Mumbai, Londra o Mosca. Tutto ben fatto, tutto a portata di mano. E i servizi alla persona sono effettivamente di qualità a Dubai. Niente a che vedere con quanto solitamente si pensa di ricevere in un Paese arabo. Perché gli Emirati Arabi Uniti sono il volto del nuovo Islam, quello di cui si parla poco dopo l’11 settembre perché schiacciato dall’Islam di talebani e fanatici. Ma è un Islam che esiste, lanciato lungo la traiettoria della modernità a una velocità perfino superiore all’Occidente. Un Islam fatto di tecnici con dottorati nelle università americane, di donne laureate e non velate che lavorano nella finanza, di tanti imprenditori che vogliono arricchirsi nel libero mercato. Quindi un valore per tutti in questo mondo globale, perché il volto di Dubai incarna la faccia dell’arabicità positiva, quella simile a noi con la quale si può fare business e convivere in pace. Farlo fallire non è davvero possibile. E infatti la Dubai World Corporation, al 100% di proprietà dello Stato, non fallirà perché Dubai è già una città simbolo della nuova globalizzazione. Dei suoi 2 milioni di abitanti, l’85% sono stranieri. Una metropoli cosmopolita legata a doppio filo all’economia del pianeta. Quello che sta accadendo a Dubai segnala la cinghia di trasmissione globale che esiste oggi tra finanza, business dei servizi e politiche economiche: se da qualche parte ci sono problemi le città della globalizzazione segnano il passo. Eppoi, aveva Dubai una effettiva alternativa strategica alla crescita accelerata? La sua crisi è, in fin dei conti, una storia ciclica del capitalismo. Come per le dot.com alla fine degli anni 90. Quando c’è tanto capitale si finisce col finanziare tutto a pioggia, anche progetti poco seri o molto rischiosi. Nessuno vuole restare fuori dal gioco perché alla fine del gioco qualche Google, eBay o Amazon.com resterà in piedi con profitto. Così è stato ed è, oggi, per Dubai. «C’era così tanta liquidità che è stato finanziato di tutto, anche progetti improvvisati», commenta Bassam Samman, imprenditore del Kuwait da 20 anni a Dubai, dove ha fondato la Cmcs, una delle società di consulenza più dinamiche dell’area del Golfo. «Ma a Dubai ci sono indubbiamente progetti validi, che stanno facendo e faranno profitti. Tutto è andato troppo velocemente e in molti casi la selezione corretta dei progetti non è stata fatta perché la domanda era travolgente». Come per le dot.com ci fu una valanga di dollari dai fondi di venture capital, così su Dubai si sono riversate montagne di dollari delle banche internazionali. Tutti volevano il biglietto della lotteria del Golfo senza preoccuparsi che prima o poi il conto sarebbe arrivato. Ed è arrivato come sempre accade nel sistema capitalistico: selezionando tra progetti buoni e meno buoni. Selezione faticosa e dolorosa, ma necessaria. «Tutto andrà avanti, ma più lentamente. E questo è un bene. Ma ormai Dubai è irreversibilmente una città nuova e cosmopolita con una nuova cultura e la crisi non cambierà questo dato», chiosa Samman. Così, alle 6 di mattina si è ancora svegliati dai rumori delle gru e dei camion che iniziano a lavorare nei tanti cantieri ancora aperti. Molti progetti sono al palo certificati da grattacieli con lo scheletro solo per metà di vetro e per l’altra metà di cemento armato. Difficile dire se e quando riprenderanno le attività anche se a Dubai molti segnalano che la crisi ha innescato un fenomeno che nel 2008 era impensabile: la rinegoziazione dei costi di produzione del settore immobiliare. Prima della crisi i prezzi erano elevati poiché in molti si contendevano le risorse scarse, mentre oggi si può comprare molto più a buon mercato. Il risultato è uno stop ai cantieri per ridefinire i costi contrattuali dei fornitori e ciò significa che presto almeno parte delle attività riprenderanno. Anche se almeno il 20% dei cantieri non si è mai fermato. Come quello dell’avveniristica metropolitana inaugurata solo da un paio di mesi o quello del grattacielo più alto del mondo pronto per essere inaugurato. Dubai, a modo suo, è un simbolo vivente del nuovo capitalismo globale. Come qualsiasi nuova frontiera che si apre ha saputo attirare facili capitali e ne è rimasto allo stesso tempo drogato e vittima. Ma come qualsiasi esperienza del capitalismo alla fine ha prodotto un’offerta nuova per il consumatore globale. Così si spiega perché in piena crisi i ristoranti più esclusivi di Jumeirah Beach sono tutti zeppi di turisti internazionali e perché l’aeroporto continua a lavorare a tempo pieno, tanto da aver deciso di costruire un nuovo terminal. «La cultura della nostra regione non è incline al fallimento e i legami tra le comunità sono molto più forti di quanto non traspaia», sottolinea Bassam. «Non si vede nelle comunicazioni ufficiali, ma l’idea che una delle nostre regioni possa finire in bancarotta non esiste. Le altre, se necessario, la aiuteranno a superare i problemi momentanei. E non bisogna dimenticare che Dubai ha costruito un portafoglio unico di asset come hotel, shopping malls, aeroporti, autostrade che non aiuteranno soltanto a superare la crisi ma sono anche unici nella regione del Golfo. Saranno utilizzati dai paesi del Golfo per sviluppare il proprio business». Per questa semplice ragione Dubai non andrà in bancarotta come un’Argentina qualsiasi. Perché la sua bancarotta avrebbe un valore simbolico che andrebbe ben oltre il Golfo e gli Emirati arabi uniti, segnalerebbe le debolezze della nuova globalizzazione. Cioè del meccanismo più sofisticato inventato dall’economia di mercato per renderci tutti più benestanti e opulenti. Un ritorno al passato che i più non vogliono. Quindi, come fu nel 2000 per le dot.com, i mercati procederanno a pulire gli eccessi finanziari e a riportare il processo sulla buona rotta. E Dubai resterà a pieno titolo una delle città simbolo della nuova globalizzazione, così come Google è il simbolo del buono che c’è stato dentro la bolla di Internet. Se il capitalismo è fatto di eccessi, quello di Dubai difficilmente poteva essere evitato; magari gestito meglio, ma sempre una qualche eccitazione sarebbe nata intorno all’idea di una città che dal nulla diventa una metropoli futurista. Le banche creditrici devono soltanto accettare di certificarlo.