Federica Bianchi, L’Espresso, 10 dicembre 2009, 10 dicembre 2009
FEDERICA BIANCHI PER L’ESPRESSO 10 DICEMBRE 2009
Com’è giovane il Brasile Trentenni nei luoghi di comando. I ventenni motori di innovazione. Incentivi a chi studia. Puntando sulle nuove generazioni, Lula ora lancia la sua scommessa
Lo chiamavano Belindia, quel territorio grande quanto gli Stati Uniti, Alaska esclusa. E lo dicevano con il sorrisetto obliquo di chi capisce bene il mondo: milioni di disperati poverissimi, umiliati da fame e lacrime, condividevano il cuore geografico dell’America Latina con un manipolo di pochi fortunati, modello di efficienza e prosperità belga, rinchiusi in enclavi e pensieri isolati. Erano gli anni in cui la dittatura sembrava la via pianificata fuori dalla miseria. Gli anni delle corse al supermercato il giorno dello stipendio perché nel successivo i prezzi sarebbero raddoppiati. Ma era il Brasile di ieri. E quel sorrisetto a labbra strette si è trasformato oggi in un sorriso di ammirazione per una nazione capace di trasformare il futuro in presente, le potenzialità in realtà. "Ho sempre pensato di non essere stato fortunato, di essere nato nel paese sbagliato", spiega nella sua casa di Pinheiros a San Paolo, Denis Burgierman, quarant’anni scarsi, la mente editoriale di Webzine, una delle società on line che stanno costruendo il nuovo volto della nazione: "Adesso, per la prima volta, sento di essere nel posto giusto. Potremo fare grandi cose perché le barriere stanno cadendo, la struttura della società cambiando, le nuove tecnologie offrono possibilità enormi".
I ventenni sono la generazione con maggior talento che il Paese abbia avuto in tanti anni e i trentenni ricevono responsabilità e mansioni dirigenziali: "Il Brasile sta vivendo adesso quello che l’Europa ha conosciuto negli anni ’60", sorride Leandro Silvera Pereira, 32 anni, responsabile di un programma di formazione per giuristi della Fondazione Getulio Vargas, il principale think tank nazionale. E non a caso è il Brasile, già terra dei Mondiali di calcio 2014, la sede prescelta per ospitare nel 2016 anche le Olimpiadi, un evento di risonanza mondiale trasformatosi con Pechino 2008 nella consacrazione ufficiale dei Paesi dei miracoli economici.
Per la prima volta nella sua storia, il Brasile è una giovane ma stabile democrazia (dal 1989, anno in cui il presidente Lula, allora sindacalista di successo, si è candidato, senza successo, alle elezioni per la prima volta) e, contemporaneamente, un’economia in crescita, sostenuta da un basso livello di inflazione. Dopo lo shock della crisi degli anni ’70, è lentamente diventata una nazione autosufficiente sul piano petrolifero ed efficiente su quello energetico, visto che le sue automobili da tempo funzionano sia a benzina che ad etanolo. E adesso le recenti scoperte di petrolio off shore ne faranno nel giro di dieci anni uno dei principali esportatori mondiali. Da quando il presidente ha chiesto di giocare un ruolo più importante sulla scena internazionale e gli è stato risposto che chi si vuole sedere a tavola deve essere anche in grado di pagare il conto, da debitore del Fondo monetario internazionale il Brasile si è trasformato in creditore netto.
E mentre il resto del mondo esce lentamente dalla crisi del 2008, non solo ha già ripreso a correre ma ha attratto il 30 per cento in più di capitali esteri rispetto all’anno scorso, costringendo il governo a imporre una tassa del 2 per cento sui flussi di denaro in entrata per evitare il ritorno di fiamma dell’inflazione. E se a un osservatore distratto un tasso di inflazione superiore al 4 per cento e un tasso d’interesse della banca centrale dell’8,75 per cento possono sembrare eccessivi (e lo sono, per gli standard delle economie occidentali) basterà che getti uno sguardo veloce a soli 15 anni fa per capire quanta strada il Paese abbia fatto da allora, trasformandosi nel ’favorito’ degli investitori di mezzo globo: tra il 1990 e il 1995 l’inflazione sfiorava l’800 per cento annuo mentre i tassi di interesse superavano il 30 per cento, paralizzando qualsiasi nuova forma di attività creditizia, e dunque, imprenditoriale. "Il Brasile non è ancora una società completamente aperta, ci sono problemi enormi con la burocrazia e il sistema fiscale", racconta Burgierman: "Ma per la generazione di mio padre era impensabile aprire legalmente un’azienda mentre io lavoro in una start up di cui non riesco a nemmeno a spiegare l’attività".
A raccogliere i frutti di una ritrovata solidità politica ed economica è oggi Luis Inacio Lula da Silva, un ex operaio divenuto il presidente più popolare del momento sia a casa, dove gode di un tasso di approvazione dell’80 per cento, che appare bulgaro ma è invece democraticamente espresso e misurato, che all’estero, dove il presidente americano Barack Obama lo chiama ’My man’ e le agenzie internazionali se lo contendono come direttore, una volta scaduto il suo mandato, alla fine del 2010.
Perfino gli economisti più vicini al presidente riconoscono che l’attuale situazione economica è frutto delle misure intraprese nella prima metà degli anni ’90 da Fernando Henrique Cardoso, il sociologo dai modi aristocratici, che nel 1994 introdusse il real e una politica monetaria estremamente conservatrice. Nel breve periodo, svalutazione e innalzamento dei tassi d’interesse crearono disoccupazione e malcontento, ma furono passi indispensabili per arginare l’inflazione, dare vita a banche profondamente solide e favorire le esportazioni: nel 2006 per la prima volta in 50 anni il tasso di crescita del prodotto interno lordo ha superato il tasso di inflazione. "Lula ha ricevuto il beneficio di un real basso e favorevole all’export mentre Cardoso ha subito solo l’impatto negativo delle sue politiche", spiega Claudio Couto, professore del dipartimento di Gestione pubblica della Fondazione Vargas: "Il merito di Lula è stato quello di dare il tempo alle politiche di Cardoso di maturare, senza modificarle". Un merito riconosciuto da avversari e sostenitori. "Quando è salito al potere noi idealisti di sinistra ci aspettavamo un nuovo modo, puritano ed etico, di fare politica ma un disastro economico", spiega Marcelo Coelho, editorialista de ’Folha de Sao Paulo’: "Ma è avvenuto il contrario. Ha posto a capo della Banca centrale un conservatore come Henrique Mereilles che ha tenuto bassa l’inflazione e ha dato fiducia agli investitori internazionali, mentre sul piano etico non ha fatto nulla di differente dai predecessori, e la corruzione non è diminuita".
Gli scandali e la corruzione dilagante nell’amministrazione non sono riusciti a intaccare, soprattutto nel povero Nord-est, la popolarità del presidente. Aiutato sia dalla sete cinese per quelle materie prime (soprattutto soia e materiali di ferro) che solo fino a un decennio fa venivano considerate la merce di scambio dei poveri e oggi possono fare la ricchezza di una nazione, che dalla sua sorprendente abilità nel dosare populismo e realismo, lacrime commoventi in televisione e parlantina vivace nei vertici internazionali, è riuscito a coniugare la stabilità economica con un’efficace redistribuzione del reddito. Dal 2002 a oggi poco meno di 20 milioni di cittadini sono usciti dalla miseria nera e, per la prima volta nella storia, la classe media (con un salario lordo compreso tra i 400 e i 1.800 euro al mese) costituisce la maggioranza dei 190 milioni di brasiliani. Non c’è stato bisogno di reinventare la ruota. La borsa di studio offerta da Cardoso alle famiglie più povere è stata ripresa e trasformata nella Bolsa familia, una sovvenzione in contanti condizionata al rispetto di poche regole come la vaccinazione dei bambini e il loro inserimento nel sistema scolastico. Partita con circa 20 euro al mese oggi sfiora i 50, e beneficia direttamente 13 milioni di famiglie e, indirettamente, un quarto della popolazione del Paese. Risultato? Oggi non esiste famiglia che non sogni il figlio all’Università. "Il Brasile ha fatto la scelta consapevole di perdere una generazione e puntare tutto sui suoi figli", spiega il politologo Sergio Abranches. Scelte dure. Ma di successo. Sui giornali campeggiano gli annunci pubblicitari del governo: "Vedere tuo figlio che impara è tanto bello quanto vederlo nascere".
E non è solo merito della Bolsa. Lula ha aumentato il livello dei salari minimi e delle pensioni, e, forte di riserve bancarie superiori alla media, ha messo in azione politiche anticicliche come il taglio delle tasse indirette e una forte agevolazione del credito, che hanno dato vita a un mercato interno capace di sostenere il Paese anche durante la crisi (le esportazioni brasiliane rappresentano soltanto il 13 per cento del Pil, rispetto al 60 per cento di quelle cinesi). "Pochi paesi sono riusciti a diminuire la disuguaglianza come il Brasile ha fatto negli ultimi dieci anni", spiega Marcelo Neri, un ricercatore della Fondazione Vargas.
Circa 28 milioni di brasiliani si sono avventurati nei negozi per acquistare a credito la prima televisione (il bene durevole più venduto nel 2009) e la prima auto. "Lula è stato il primo a pensare che l’aumento dei consumi interni potesse aiutare a chiudere il divario tra ricchi e poveri", spiega Burgierman. Eppure, nonostante i successi, tra intellettuali e imprenditori rimane un rimpianto. "In Occidente vedono Lula come un mix tra Nelson Mandela, Lech Walesa e Robin Hood", chiosa Coelho: "Ma col tipo di favore di cui ha goduto avrebbe potuto fare di più, e affrontare almeno una delle grandi riforme strutturali di cui ha bisogno il Paese, da quella del sistema educativo, a quella della giustizia". Anche a costo di perdere qualche percentuale di popolarità.