VARIE, 9 dicembre 2009
Vado (quasi) al massimo VOCE ARANCIO - Giorni sì (come il martedì), giorni no (come il lunedì): sono tanti i fattori che influenzano nel bene e nel male i risultati sul lavoro
Vado (quasi) al massimo VOCE ARANCIO - Giorni sì (come il martedì), giorni no (come il lunedì): sono tanti i fattori che influenzano nel bene e nel male i risultati sul lavoro. I consigli per essere sempre al cento per cento . « produttivo il lavoratore che produce capitale» (Karl Marx, Teorie sul plusvalore). Produttività: capacità di raggiungere un risultato. Fattori che la influenzano positivamente: ambiente di lavoro confortevole, buona predisposizione personale, rapporti con i colleghi basati sulla stima e sulla collaborazione ecc. «I fattori che intervengono sulla produttività sono molto numerosi – spiga a Voce Arancio il professor Guido Sarchielli, professore di Psicologia del lavoro all’Università di Bologna - Ci sono elementi ambientali e fisici, aspetti di natura tecnologica (la complessità degli strumenti di lavoro, per esempio) e fattori sociali: lavorare in un gruppo affiatato o, per contro, in un gruppo in cui ci sono difficoltà di relazione può essere un ostacolo o favorire la propria produttività. Ci sono poi aspetti legati all’organizzazione del lavoro: se i compiti sono chiari e determinati o, viceversa, c’è ambiguità e le scadenze sono poco chiare, i risultati cambiano. L’elemento fondamentale è in ogni caso il contesto. Poi intervengono anche fattori legati alla persona: il livello di competenza, la motivazione, il coinvolgimento, lo stato fisico: se si è stanchi o non ci si è riposati a sufficienza i risultati cambiano. Possono poi esserci anche piccole patologie legate all’esperienza familiare (preoccupazione su chi deve andare a prendere i bambini a scuola, per esempio). Il bilanciamento tra lavoro e famiglia è molto importante». Nelle aziende in cui le donne occupano i posti di comando la capacità di centrare gli obiettivi cresce dal 18 al 69% (analisi del Glass Ceiling Research Center che per vent’anni ha studiato 500 tra le maggiori aziende americane). Secondo Marx si doveva lavorare non più di 35 ore a settimana, Alfred Marshall scommetteva su una giornata lavorativa di sei ore, dimezzate in caso di attività usurante, John Maynard Keynes ipotizzava tre ore di lavoro al giorno. Oggi in Italia il lavoro dipendente (il 30% del totale) non supera le 38 ore settimanali. Dirigenti o manager, che in media lavorano tra le 50 e le 55 ore a settimana, raggiungono picchi di 80 ore. I lavoratori autonomi, il 10,4% della forza lavoro, faticano il 10% in più dei subordinati. Le ore effettivamente lavorate in Italia sono in media 38 alla settimana contro le 39,5 dell’Europa a 15 e le 53 della Turchia. Secondo i calcoli di Confindustria, trascorriamo in ufficio 1.500 ore l’anno, 250 in meno rispetto agli Stati Uniti. Da noi, inoltre, ci sono più ferie e più festività: 40 giorni contro i 26 statunitensi e i 33 del Giappone. Produttività italiana per addetto negli anni Settanta: 2,8%. Nel 2007: 0,8%. I dipendenti si concentrano sulla propria attività per il 75% della loro giornata lavorativa, restano improduttivi per un quarto del tempo trascorso in ufficio (dato ICM Research su un campione di 5500 lavoratori di 18 paesi d’Europa). Incentivi finanziari e bonus migliorano le prestazioni di otto lavoratori su dieci, apprezzamenti più frequenti da parte dei superiori e un ambiente di lavoro più stimolante spingerebbero a far meglio l’85%. La ricerca ICM evidenzia inoltre che una maggiore flessibilità nella gestione delle ore lavorative migliora i risultati. Quasi sei intervistati su dieci si dicono sicuri di poter produrre di più lavorando meno ore al giorno, uno su quattro raggiungerebbe risultati migliori se potesse lavorare da casa. Il martedì, il giorno in cui si è più attivi (risposta del 24% degli intervistati). ll venerdì, il giorno peggiore per la maggior parte dei lavoratori europei. Per italiani, portoghesi e tedeschi il momento più brutto della settimana è il rientro in ufficio dopo la domenica (o dopo le ferie). Il capo. Per più della metà degli intervistati la persona più improduttiva del proprio ambiente di lavoro. Multitasking, la capacità di fare più cose contemporaneamente. Ricerche neuroscientifiche hanno dimostrato che quest’attitudine peggiora le performance del cervello che nel saltare continuamente da una cosa all’altra perde lucidità, capacità mnemonica e organizzativa. Per ottimizzare il rendimento della propria mente, suggerisce Dave Crenshawm, autore di Una cosa per volta. Quando fare tutto è fare niente, bisognerebbe soffermarsi su un progetto per almeno undici minuti prima di passare ad altro. Inoltre, le interruzioni sul lavoro (chiacchierare con i colleghi, rispondere a una mail o al telefono, allontanarsi dalla scrivania ecc.) fanno perdere almeno due ore di produttività al giorno, cosa che per l’economia americana comporta uno spreco di 650 miliardi di euro l’anno. Per stimolare la propria produttività bisognerebbe fare stretching alla scrivania (distanziare le dita e stirarle, rilassare la schiena, stirare il collo. Così dicono gli inglesi), confrontarsi con i colleghi (è la ricetta del 28% dei danesi) e bere te o caffè (fa così il 27% dei polacchi). Secondo uno studio della Norwich University of East Anglia, i dipendenti che usano un linguaggio colorito sono quelli che ottengono risultati migliori: le parolacce infatti aiuterebbero a combattere lo stress e a creare una certa solidarietà tra colleghi. Sarchielli: «Gli psicologi hanno studiato il problema delle pause sul lavoro dall’inizio del Novecento. C’è una curva nella produzione della persona, con il passare delle ore la produzione tende a diminuire. La pausa blocca questa curva discendente e reintegra le energie fisiche e mentali della persona. Per questo motivo direi che è fondamentale: cinque minuti ogni due o tre ore servono a ricominciare meglio a lavorare. Per quelli che trascorrono parecchie ore davanti al computer, poi,la pausa è necessaria quasi per ragioni di natura sanitaria: serve a rimediare alla stanchezza oculare». L’ideale sarebbero tre stacchi da dieci minuti poco prima dei momenti più impegnativi della giornata, cioè dopo le 11 e verso le 14.30. Ci si può concedere un’altra pausa a metà mattina o un’ora prima della fine del proprio turno. Anche l’attività fisica è uno strumento efficace per lavorare meglio. Secondo una ricerca dell’università di Bristol svolta su 200 lavoratori dipendenti, una corsa sul tapis roulant e qualche passo sullo step migliorano la produttività: danno energia, favoriscono la concentrazione e la capacità di risolvere i problemi, rilassano ecc. Per questo motivo, la metà degli uffici inglesi ha allestito una sala fitness al propri interno. In alternativa si offrono tariffe d’abbonamento agevolate. Le ore maggiormente produttive sono le prime della giornata, le prestazioni sono in calo, invece, dopo pranzo o nel tardo pomeriggio. Un impiegato francese su due dopo aver mangato e un olandese su quattro dopo le 16 producono di meno a causa della stanchezza. Per uno su cinque la mattina è il momento peggiore della giornata per le difficoltà legate al risveglio. I mesi meno produttivi dell’anno sono luglio (per svedesi, finlandesi e norvegesi) e agosto (per italiani, spagnoli e portoghesi). Per il 24% degli inglesi, invece, lavorare a dicembre porta scarsi risultati. Tempo che ogni giorno si dedica dall’ufficio all’aggiornamento del proprio profilo su Facebook: almeno venti minuti. Pagine di Google sfogliate dal posto di lavoro in un mese: 2673. Per quanto riguarda l’uso dei social network, considerato da molti come una grave distrazione, Brent Coker dell’università di Melbourne, studiando un campione di 300 lavoratori dipendenti, ha stabilito che la consultazione di Facebook o di Twitter migliora le prestazioni lavorative del 9%: «Navigare per divertimento sul lavoro contribuisce a migliorare la concentrazione. Le persone hanno bisogno di distrarsi un po’ per poi tornare a concentrarsi». Modelli produttivi a seconda dei profili caratteriali: 1. «Quelli che… Il mattino ha l’oro in bocca!»: a questa categoria appartengono coloro che, avendo dormito bene la notte precedente, dimostrano il massimo rendimento di prima mattina ma risentono molto della pausa pranzo, ottenendo così prestazioni ridotte nel pomeriggio. 2. «Quelli che… Non ci vedo più dalla fame!»: appartengono a questo gruppo quanti riescono a dare il meglio di sé sul lavoro dopo la pausa pranzo e che crollano solo nel tardo pomeriggio. 3. «Quelli che… Pancia mia fatti capanna!»: sono quelli che prolungano la pausa pranzo e che alla fine della giornata producono tanto e bene, a differenza di quanto fatto nella prima parte del giorno. Il ministro per l’Attuazione del programma, Gianfranco Rotondi, che, parlando della pausa pranzo, abitudine che ha abolito da vent’anni, ha detto: «Non mi è mai piaciuta questa ritualità che blocca tutta l’Italia. Le ore più produttive sono proprio quelle». Alla pausa pranzo gli italiani dedicano in media trenta minuti al dì. Solo il 16% riesce a tornare a casa e a mangiare in famiglia, nella maggior parte dei casi (35,8%) si mangia alla mensa aziendale, uno su quattro sceglie il ristorante o la pizzeria, il 18,1% prende un tramezzino al bar o un pasto veloce alla tavola calda, solo il 2,7% va al fast food e l’1,2% si siede all’etnico. Tra chi non può tornare a casa, uno su due sceglie in base alla vicinanza del posto di lavoro, uno su tre in base alla convenienza economica o in base alla varietà del menu. Solo il 28,3% dei dipendenti italiani fa riferimento alla velocità del servizio. Pausa pranzo nel resto del mondo: Germania: tra i 30 e i 45 minuti per gustare soprattutto carne e patate; Regno Unito: 29 minuti; Francia: venti minuti ogni sei ore per gustare formaggi e baguettes; negli Stati Uniti le norme che regolano la pausa pranzo variano di Stato in Stato; in Spagna si gustano insaccati, nel Regno Unito soprattutto panini. Gli svedesi se possono mangiano zuppe. Ogni anno in Italia per il pranzo fuori casa si spendono 5,3 miliardi: uno nelle mense, uno nei ristoranti, 1,8 nei bar e 1,5 in buoni pasto. Secondo gli esperti dell’alimentazione, però, saltare il pasto potrebbe non essere una buona soluzione: Pietro Antonio Migliaccio, nutrizionista: «Bisogna sempre mettere al centro la persona e non solo la produttività. Noi italiani culturalmente e geneticamente abbiamo bisogno della pausa pranzo, a differenza di altri popoli come gli anglosassoni dove si fa un’abbondantissima colazione e quindi la pausa pranzo diviene meno importante. Ma per noi non può essere così, non si può eliminare un’abitudine, il pranzo, che è così radicata da essere scritta persino nel nostro Dna».