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 2009  dicembre 09 Mercoledì calendario

CHISSA’ PERCHE’ I BOSS IN CARCERE NON MALEDICONO SPATUZZA


Per la prima volta non c’è la fatwa dei boss contro un pentito», osserva Sergio Scandura, inviato di Radio Radicale ai processi di mafia ed esperto dei meccanismi giudiziari palermitani, a proposito di Gaspare Spatuzza, il «pentito» che voleva arpionare Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. «Capisco la tua scelta di pentirti e la rispetto», così suonarono le parole del boss Giuseppe Graviano al suo sottopanza Spatuzza, durante il confronto. Questo fa sospettare, al giornalista di Radio Radicale, che, al di là di Spatuzza, vi sia un network pentitista, deciso ad accecare e paralizzare gli uffici requirenti, velando quanto accade oggi, come il rientro degli «americani», fuggiti ai tempi della guerra di mafia.

, aggiungiamo noi, una fatalità? Osserviamo il processo per la strage di via D’Amelio, dove fu stroncato il giudice Paolo Borsellino. La colpevolezza di Vincenzo Scarantino sembrava provata al di là d’ogni ragionevole dubbio. Egli, anche secondo la Cassazione, portò la 500 Fiat carica di esplosivo in via D’Amelio. Spatuzza scagiona Scarantino e alza il dito contro Berlusconi per le bombe del 1992-1993. Sulla credibilità di Scarantino riferimmo a suo tempo, da queste colonne, le espressioni caustiche di Lino Jannuzzi, un pezzo di storia del giornalismo: a Scarantino negò qualunque dignità di mafioso ben prima che Spatuzza si pronunciasse. Ciò procurò a Jannuzzi guai con la giustizia prima dell’apparizione di Spatuzza. Ora, nella matassa imbrogliata, si impastoiano quelli che s’illudevano di gabellare l’opinione pubblica.

Puoi mentire molte volte a una persona ed essere creduto; puoi mentire alcune volte a molte persone ed essere creduto; non si può mentire molte volte a molte persone e continuare a essere credibili. esattamente questo quanto avviene dall’udienza torinese di Spatuzza, «pentito della mafia e non pentito di mafia», come l’ha definito Marcello Dell’Utri.

Dal 1992 sino all’altro ieri, il copione aveva funzionato. Un «malacarne» si pentiva; le sue rivelazioni venivano raccolte e custodite come gli oracoli d’un santo profeta; rincalzava ben presto una procura, poi due e tre; ben presto, il malcapitato politico era completamente fuori gioco; per poi riabilitarlo dopo dieci, venti o trent’anni, quando oramai è fuori dai giochi.

Ma per fortuna non c’è solo il pentitismo d’annata. Anche i ciechi si accorgono che c’è pure una magistratura requirente che lavora sul presente, sulla mafia attuale e pericolosa. Piero Grasso, in prima linea in questo schieramento, è attaccato come accadde a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Egli ha tuttavia un vantaggio rispetto ai due giudici trucidati: ha potuto conoscere più a fondo la pericolosità delle trame che portano oggi taluni settori della politica e della magistratura alla contiguità operativa con gli stessi mafiosi che ieri segnarono il destino dei due eroi magistrati.

Che cosa significa tale contiguità tattica, apparentemente innaturale? Berlusconi è convinto che tutto dipenda dai suoi successi contro i latitanti e dalle misure restrittive del carcere duro. Però non convince e tanto meno lui dovrebbe sentirsi rassicurato. Non basta il tornaconto dei delinquenti; esso non dà risposta a chi domandi perché certi settori politici, apparentemente iperpuritani, possano blandire i mafiosi stragisti con una continuità oramai ventennale.

Quando, a luglio 2009, dopo gli acuti di Totò Riina, giunsero il contro canto di Massimo Ciancimino e le idiozie pseudo scientifiche sul castello Utveggio, era davvero chiaro, a chi voleva capire, che si tentava di riportare l’orologio alla primavera stragista del 1992. In altri tempi, si sarebbero inventato qualcosa di più violento. Ora però manca la mano d’opera e, tutt’al più, possono far conto sui fricchettoni dell’ondicella viola. Troppo poco per continuare la politica giustizialista con altri mezzi. Chiederanno rinforzi fuori.