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 2009  dicembre 04 Venerdì calendario

Blahnik, un mito grazie alla stampa- Manolo Blahnik è l’unico designer ad aver creato un marchio globale da 60 milioni di euro senza investire in pubblicità

Blahnik, un mito grazie alla stampa- Manolo Blahnik è l’unico designer ad aver creato un marchio globale da 60 milioni di euro senza investire in pubblicità. Ed è lui stesso a sottolineare l’aiuto ricevuto agli esordi, e non solo, dalla stampa. «In 35 anni di carriera ho solo pensato a fare belle scarpe. I giornali se ne sono accorti sin dall’inizio e mi hanno dato una mano. Nel tempo, poi, il passaparola delle donne ha fatto il resto». Certo, se il primo giornale si chiama Vogue America e l’elenco delle donne comincia dalla A di Anne Wintour, è più facile. «E pensare che la mia prima sfilata a Londra, per lo stilista Ossie Clark, fu un disastro. Ero agli inizi e non avevo calcolato bene lo spessore dell’anima metallica del tacco da 18 centimetri. Le modelle oscillavano pericolosamente. A ripensarci poi, poteva sembrare anche sexy». A raccontarlo è lo stesso Blahnik durante una delle sue rarissime apparizioni in pubblico. L’appuntamento è presso la sala a lui dedicata all’interno del Museo internazionale della calzatura di Vigevano, riaperto dopo il recente restauro. «E pensare», ricorda, «che non avrei neanche voluto diventare un designer di scarpe: il mio sogno era la scenografia teatrale». Così, dopo gli studi parigini, nel 1970 il giovane Blahnik (nato alle Canarie nel 1942 da madre spagnola e padre ceco) si presenta con le sue tavole di schizzi scenografici nell’ufficio di Diana Vreeland, allora caporedattore di Vogue America. «Lei puntò il dito sulle scarpe che avevo disegnato ai piedi dei personaggi: erano sandali con ciliegie rosse appese ai lacci. Mi disse, più o meno: lascia perdere il teatro, tu devi disegnare scarpe». E così, il giovane Manolo si mette a studiare come si costruisce «l’architettura di una calzatura» che, sorprendentemente per chi non ha mai indossato i sandali a stiletto che sono diventati la sua firma, «prima di tutto deve essere comoda. Ci sono tacchi più larghi molto più difficili da portare. Senza parlare poi delle zeppe: un vero orrore». Per imparare prende il primo volo per Milano e viene proprio a Vigevano, dove incontra chi le scarpe le sa fare da generazioni: gli artigiani della calzatura. All’epoca comincia a lavorare con lo storico Ottorino Bossi (oggi continua con il calzaturificio Re Marcello e con Caimar, facendo tappa nel comune pavese più volte all’anno) e nel 1973 la produzione è avviata e Manolo apre il suo primo negozio a Chelsea, Londra. Da quel momento non c’è numero di Vogue o Vanity Fair America che pubblichi un servizio di moda senza un paio di Manolo Blahnik. «Una volta», racconta, «ho anche fatto un paio di scarpe completamente trasparenti apposta per Vanity Fair che voleva ritrarre un’attrice, di cui non ricordo il nome, nei panni di Cenerentola. Quelle, devo ammetterlo, erano scomode: erano di plexiglas. Ma hanno fatto la loro figura». L’utilizzo dei materiali più diversi fa parte della cifra creativa dello stilista. «Il pvc, per esempio, è molto divertente per fare i lacci dei sandali. E una volta ho fatto anche un esperimento con il titanio, un metallo curioso». Curiosità e ironia: Manolo non perde un colpo e risponde alle domande che arrivano a raffica: negozi, città, ispirazione e numeri. «I numeri non mi interessano. L’unica cosa a cui tengo è che le persone che lavorano con noi e per noi, dai meravigliosi modellisti che ho incontrato qui a Vigevano agli artigiani locali, continuino a produrre. La parte strettamente commerciale invece la segue mia sorella Evangelina con le figlie (la maggiore, Cristina, vigila con discrezione sullo zio a pochi metri da lui svettando su un paio di Mary Jane del 1993, un modello cult per le Manolo-dipendenti, nella foto, ndr)». La filosofia retail della maison Manolo Blahnik è in controtendenza rispetto alle griffe globali: oltre a non investire in pubblicità, non si sono lanciati in diversificazioni («Le borse? Non le sento») e neanche in aperture proporzionali al loro successo mediatico. In Italia, per esempio, a distribuire le Manolo c’è solo Carla Sozzani nel suo 10CorsoComo, a Milano. «E non abbiamo intenzione di aprire alcun monomarca», risponde Manolo a una domanda sul futuro. «Milano è cambiata», continua, «trent’anni fa passeggiavi per il centro alle dieci del mattino e vedevi giovani signore ben vestite. Senza eccessi ma con grande eleganza, il mezzo tacco e le perle. Oggi sono cambiati in negativo i punti di riferimento, tutto si basa sullo stereotipo televisivo e sulla celebrità gratuita, senza meriti. Quelle che voi chiamate veline sono fenomeni che non capisco». Prima di chiudere con decine di foto ricordo che neanche una rockstar (i grandi stilisti italiani avrebbero sguinzagliato le guardie del corpo per molto meno) Manolo risponde con un sorriso a favore di flash all’ultima domanda, quella su cosa lo ispira di più: «I colori forti. Una vecchia foto di mia madre. Gli iris. Tutto ciò che è bello ma può morire da un momento all’altro». Neanche un pensiero per Carrie Bradshaw, il personaggio di Sex and the city che ha fatto impennare le vendite delle Manolo negli Stati Uniti? «Ben venga se mi ha fatto vendere di più. Ma la tv per me è come la moda: non la seguo».