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 2009  dicembre 07 Lunedì calendario

500 L’AUTOMOBILE CHE UNI’ L’ITALIA


Pubblichiamo l´anticipazione del capitolo "La carica delle Cinquecento" dell´ultimo libro di Il caratteraccio, edito da Mondadori.
Il breve spot della Nuova 500 con il dettaglio della mammina che saluta i figli scolaretti - si può vederlo e riascoltarlo nell´archivio video di YouTube - dice, con la voce impostata dell´attrice che fa la parte della «lei», due cose importanti. La prima è nelle parole della moglie che spiega all´immaginario coniuge di aver bisogno di un´automobilina economica, umile, quasi astemia (cento chilometri con quattro litri e mezzo) ma tutta sua, per non dargli fastidio e non contendergli l´uso dell´auto di famiglia, chiaramente riservata all´uomo-padre. La seconda è in quell´esclamazione conclusiva che i pubblicitari chiamano pay off, lo slogan finale, la formula che deve far scattare l´impulso a comprare, come la "Milano da bere" del mio compagno e camerata Marco Mignani o "Il tigre nel motore" della Esso. L´attrice afferma, con tono deciso e quasi polemico: «Tutti possono dire ora della Nuova 500: è per me».
Per me, punto e basta. Io, me, mia.
Nell´innocenza di quella favoletta per neoconsumisti affamati di briciole di prosperità dopo tanta fame, e per donne ancora più assetate di libertà individuali dopo generazioni di antenate confinate nella casa del padre o del marito, si nasconde uno dei tarli sempre presenti nel legno di ogni tentativo di unificazione del paese negli anni Cinquanta e di solidificazione dell´identità italiana. Il tarlo dell´individualismo, più forte di ogni fede e di ogni ideologia, riesumato in quel 1957 in chiave consumistica e prefemminista. Quando era chiamato a difendere la propria industria e i prodotti che sfornava, diventati un po´ troppo invadenti, spetezzanti e antipatici, Gianni Agnelli, il signor Fiat, ribatteva sempre che «l´automobile è libertà», e aveva ragione. Almeno prima che si trasformasse in schiavitù.
Per secoli, in una nazione rimasta contadina più a lungo e tenacemente delle altre società occidentali scosse dall´industrializzazione, che sempre provoca migrazioni interne importanti, l´immobilità culturale era stata prima di ogni altra cosa immobilità fisica. (...)
Su questo popolo statico, per il 42 per cento agricolo nel 1950, e fino al 75 per cento nel Meridione dell´intatto latifondo gattopardesco, il motore a combustione interna prodotto su larga scala piomba con un effetto dirompente più violento delle bombe scaricate dalle flotte aeree nella Seconda guerra mondiale. Uomini e soprattutto donne improvvisamente si trovano come il Barone di Münchhausen sparati in groppa alla palla di cannone della modernità, in sella allo sciame di biciclette a motore e scooter che, prima delle auto, sciolgono i piedi degli italiani dal blocco di cemento della loro immobilità. Velosolex (il primo incontro da bambino con un veicolo "automobile", sul sellino, aggrappato al nonno, inebriato e terrorizzato dalla velocità vertiginosa del mezzo che i ciclisti a spinta di gambe sorpassavano agevolmente), Mosquito, Motom, Galletti, Gilera, Guzzi, Moto Morini, Agusta, Ducati, Aprilia, Lambrette, Vespe - sembra battezzate così proprio dal ronzio da insetto che il primo motore da 98cc del 1946 emetteva - hanno gli effetti che i forni a microonde hanno sulle molecole dei cibi, sciogliendole, agitandole, scaldandole. (...)
L´unificazione sociale, e quindi culturale, della penisola frantumata dall´isolamento centenario dei propri abitanti era la promessa portata da quei trabiccoli a due, tre e poi quattro ruote sui quali guidatori e passeggeri finalmente erano padroni di andare e venire senza aspettare i treni, le corriere, il calesse o il rarissimo taxi, riservato per occasioni estreme («noi s´è di quei ricchi che si va in macchina soltanto quando ci si ammala» diceva il mio nonno fiorentino, viaggiando verso l´ospedale su un´auto di piazza).
Per quanto orrende fossero le nostre strade, ancora pericolanti o provvisori i ponti bombardati e lontanissimi i luoghi da raggiungere attraversando vie crucis di centri cittadini lungo le stesse strade consolari calcate dai legionari romani, ogni meta diventava accessibile, per vacanza o per lavoro, per andare al mare o per andare a insegnare o curare pazienti come medici condotti. Non ci sarebbe stata la capillare alfabetizzazione dell´Italia, o il vero balzo in avanti nell´aspettativa di vita, soprattutto per le donne assistite nel parto, senza quei motorini cavalcati da maestre e dottorini che sfidavano d´inverno il vento gelido per portare l´abbecedario ministeriale o il flaconcino della penicillina Squibb a tutti.
Lambrette e Mosquito, Galletti e poi 500 avrebbero tentato di fare quello che bonapartisti, carbonari, fervidi massoni mazziniani, mangiapreti, garibaldini, fascisti, partigiani, missionari non avevano saputo fare: costruire finalmente gli italiani, se non proprio unificati almeno omologati. (...)
Se era vero, come sosteneva Henry Ford, che metà degli americani nati prima della guerra erano stati concepiti sul sedile posteriore delle automobili, è probabile che molti italiani nati negli anni Cinquanta e Sessanta siano frutto di un incontro amoroso consumato su una 500 o una 600. Il che spiegherebbe scientificamente perché gli italiani nati allora siano mediamente più piccoli di statura dei coetanei americani. L´evoluzione della specie premiava coloro che riuscivano a contorcersi nelle angustie di un´utilitaria per riprodursi. (Scherzo, ragazzi, naturalmente).
Per un lungo momento, con l´esplosione del trasporto individuale, che democratizzava quella mobilità fino ad allora riservata a pochi fortunati, e l´accensione della tv che il 3 gennaio 1954, dopo due decenni di caute sperimentazioni, cominciò ufficialmente la programmazione regolare collegando a un´unica sorgente di informazione e di intrattenimento l´Italia dell´Est e dell´Ovest, del Sud e del Nord, un´altra ipotesi di italianizzazione degli italiani si era formata.
Italianizzazione non piovuta dall´alto, questa volta, non imposta o benedetta, non vidimata da dubbi plebisciti o forzata dalla leva militare, ma prodotta dal basso, dalla possibilità di acquistare, anche a comode rate, la propria autonomia, per accorgersi di vivere in una nazione unica, nella quale, a differenza di Cristo costretto a fermarsi a Eboli, il guidatore di una 600 o di una 1100 poteva spingersi anche oltre.
E quella lingua estranea, trapanata dalle maestre nei crani dei bambini sui banchi, strappata alle grinfie dei dialetti che erano sempre serviti a separare, certamente non a unificare, gli abitanti, diventava utile non soltanto per compilare e capire atti di nascita, cartoline precetto e certificati di morte. L´italiano serviva finalmente anche ai lavoratori manuali, agli operai, ai contadini per cercare un lavoro migliore che richiedeva prima la terza, poi la quinta elementare; per divertirsi, seguire i film al cinema, appassionarsi ai drammoni dei romanzi sceneggiati, ascoltare le radio, poi le telecronache del calcio, e rosicchiarsi le unghie aspettando di vedere se il concorrente, quel simpatico demente che sapeva tutto sui fagotti e i controfagotti, sui cavalli o sulla geografia, sarebbe riuscito a dare la risposta esatta prima che la lancetta raggiungesse il traguardo e così ghermire i gettoni d´oro. Non era l´unificazione alta e nobile descritta sulla Giovine Italia di Giuseppe Mazzini o tracciata da Gaetano Salvemini dopo aver studiato i comuni italiani, quella spiritualmente liberale agognata da Piero Gobetti o immaginata da Antonio Gramsci, e della quale anche Benedetto Croce disperava. Il nuovo carattere italiano era umilmente forgiato dall´ingegner Dante Giacosa, padre della 500, e da Mike Bongiorno, dalla voce di Alberto Lupo o del primo lettore di telegiornale, quel Riccardo Palladini con le orecchie a sventola, che insieme stavano "facendo gli italiani" più di Massimo d´Azeglio o di Benito Mussolini. Avrebbe scandalizzato i padri della patria, ma quel popolo ipnotizzato alla stessa ora della stessa sera davanti allo stesso programma, o intruppato nei primi ingorghi stradali sul ponte di barche attraverso il Po, sulla Salaria, sulla via Emilia o sulla Aurelia, stipato nelle stesse scatoline di lamiera, era pur qualcosa di meglio del «volgo disperso che nome non ha» denunciato da Alessandro Manzoni.