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 2009  dicembre 07 Lunedì calendario

QUELL’AUTOBUS NEL TRAFFICO CHE «CORRE» A 10 ALL’ORA

Qualsiasi podista con un minimo di allenamento è in grado di superare i 10 chilometri orari di velocità media raggiunti dagli autobus di Napoli, mentre per fare meglio delle automobili che, sempre sotto il Vesuvio, arrancano nelle vie ingolfate (e sfrecciano in media a 21 chilometri all’ora) serve almeno una bicicletta. Sempre che si abbia spazio per pedalare, magari al sicuro dall’ingorgo motorizzato. In questo caso la regola è semplice: se lo spazio c’è, se c’è la pista ciclabile non ci si trova in una grande città italiana. Né a Napoli, né altrove.
I sintomi del problema traffico in tutte le aree metropolitane sono evidenti, soprattutto agli occhi di chi tutti i giorni si mette in macchina in una grande città italiana e ci passa in media un’ora e un quarto prima di arrivare a destinazione.
Ma i numeri messi in fila dal rapporto sulle «Città mobili» (si fa per dire) che Cittalia presenterà nei prossimi giorni offrono la diagnosi: la mobilità urbana delle grandi città è malata di contraddizioni: fra una domanda di mobilità pubblica in crescita costante (il trasporto locale ha aumentato del 13,4% i propri passeggeri negli ultimi otto anni) e una disponibilità finanziaria da parte degli enti locali sempre più alleggerita, fra un numero di pendolari e city users in aumento (+5,5% tra 2001 e 2009) e regole che continuano a trattare tutti i comuni allo stesso modo, dalle grandi città ai piccoli paesi, come se fossero fortini inespugnabili, articolando le norme sulla base del solo numero dei residenti. Regole uguali per tutti, e quindi avare con tutti, che tra il ’99 e il 2007 hanno assottigliato del 19% la spesa che i sindaci dedicano alla mobilità, facendo perdere per strada un miliardo tondo tondo all’anno solo nelle 15 città più grandi.
Nemmeno gli amanti del rigore finanziario, però, possono trovare nelle cifre offerte dalla Fondazione che sviluppa le ricerche per l’associazione nazionale dei comuni qualche ragione di sollievo: la malattia del traffico ha un costo, fatto di ore spese inutilmente nel lento movimento fra la casa e l’ufficio, di benzina consumata senza muoversi, di mancata produttività, di danni ambientali (con l’Unione europea pronta a colpire chi sfora per troppo tempo i limiti alle polveri sottili). Tradotto in cifre, fanno 2,6 miliardi di euro all’anno, a cui si aggiungono i 3 miliardi buttati via con gli incidenti stradali; mezzo punto di Pil che se ne va, sempre limitando i calcoli alle sole 15 città più grandi del paese, perché se si allarga lo sguardo a tutta l’Italia il conto dei soli incidenti vola a 15 miliardi all’anno. Ma più delle cifre aggregate, fanno impressione i «costi da congestione» in rapporto al numero di vetture circolanti: in base a questi numeri, ogni automobilista romano paga per l’eccessiva compagnia che trova in strada più di 1.350 euro all’anno, napoletani e genovesi perdono circa 900 euro, mentre chi vive a Torino, Milano o Palermo se la cava con 800 euro.
Se i bilanci privati soffrono, quelli comunali chiudono i rubinetti e tagliano soprattutto la "spesa corrente" in mobilità, quella destinata alla manutenzione ordinaria della rete stradale e del trasporto pubblico, che a prezzi costanti dal 1998 al 2007 è crollata del 43 per cento. Gli effetti si vedono anche senza il bisogno di spulciare le tabelle dei bilanci pubblici: basta chiedere ai tanti motociclisti che ogni giorno si avventurano in dribbling sempre più serrati fra le auto in coda e rischiano di assaggiare l’asfalto bucherellato della Capitale, dove il Campidoglio spende in mobilità 620 milioni l’anno contro il miliardo e 700 milioni di dieci anni fa. I milanesi se la devono cavare con il 59% di risorse in meno rispetto al 1998, i torinesi con il 19%, mentre a Bologna il taglio è stato del 15 per cento.
Un po’ meglio, almeno nei consuntivi analizzati da Cittalia, è andata alla spesa per investimenti, che nello stesso periodo è aumentata del 7%, con qualche sofferenza in più al Sud, dove si arriva agli estremi di Catania e Messina, che alla voce «investimenti in mobilità» segnano un secco zero. Proprio sugli investimenti, poi, hanno infuriato le ultime versioni del patto di stabilità, che dal 2007 in poi hanno costruito un argine invalicabile ai pagamenti e hanno tagliato di conseguenza le gambe anche ai nuovi bandi, per cui gli aggiornamenti futuri di questi dati nasconderanno probabilmente altre sorprese negative.
La dieta forzata, così com’è, rischia di provocare effetti paradossali anche per gli investimenti «strategici», in cui lo Stato prova a mettere il carico da novanta. Dopo un lungo tira e molla, per esempio, il mese scorso il Cipe ha estratto dal cappello 921 milioni per la M4 e la M5 di Milano (che tra l’altro, con 27,6 chilometri ogni 100mila chilometri quadrati, contro i 7,2 di Torino o i 2,8 di Roma, è l’unica città con una rete metropolitana di livello europeo). Il problema è che per far partire le opere anche il comune deve mettere la propria quota, che lo porterebbe automaticamente fuori dal patto di stabilità e che per questa ragione bussa da settimane alla porta di Tremonti per ottenere una deroga. Problema identico per la metropolitana di Bologna, dove il Cipe ha messo sul piatto 250 milioni, ma per far partire davvero le opere ne servono altri 150, che il comune prova ora a chiedere ai privati.
L’aridità dei conti, insomma, è un ottimo argomento di difesa per i sindaci. Ma non basta. La fotografia delle città italiane rende evidente un problema di cultura, amministrativa e ambientale, che trasforma in utopia anche interventi che di soldi ne richiedono pochi. Il caso più lampante è quello delle piste ciclabili: non si tratta di eguagliare il modello Helsinki, che nonostante il clima è la capitale europea del ciclista urbano e vanta una rete di piste ciclabili 85 volte più grande di quella di Roma (e 25 volte quella di Milano), ma da Parigi a Vienna non c’è città europea che vanti una superiorità siderale rispetto alla situazione italiana. E per fare una pista ciclabile le deroghe al patto di stabilità non servono • «Il quadro della mobilità urbana in Italia è figlio di due tendenze contrastanti: la modernità aumenta l’esigenza di movimento di persone e cose, ma la finanza pubblica si evolve nel senso di una contrazione ossessiva di alcune spese». Guido Castelli, sindaco di Ascoli Piceno e delegato dell’Anci per la mobilità e i trasporti, mette l’accento prima di tutto sui tagli subìti dai conti comunali, e questo è ovvio. Ma non si nasconde dietro a un dito quando si parla dei ritardi e delle "colpe" degli amministratori, e questo è importante.
La stretta ai bilanci spiega molto, ma non tutto. Le piste ciclabili, per esempio, non costano milioni.
È vero, c’è una cultura amministrativa a volte pigra e in ritardo, nonostante gli incentivi statali o regionali che pure ci sono stati. Questa freddezza, però, è figlia anche dell’atteggiamento della comunità, che soprattutto in certe aree del paese è disattenta a questi temi. Una più marcata pressione da parte dei cittadini potrebbe cambiare l’agenda delle priorità.
Sul capitolo risorse l’attenzione è puntata sulla riforma del Codice della strada, che almeno inizialmente voleva togliere ai comuni tutte le risorse prodotte dagli autovelox sulle strade extraurbane. Non c’è una colpa di quei sindaci che hanno usato la strada come un bancomat?
Chiariamo prima due aspetti. Non si può dire che le autonomie, nel loro complesso, siano responsabili e non si può dimenticare che il controllo delle strade è cruciale per la sicurezza, e per frenare i comportamenti "indisciplinati" degli automobilisti.
D’accordo. I soldi delle multe dovevano però servire anche per le campagne di sensibilizzazione, ma nessuno ha mai controllato l’effettiva destinazione delle risorse. Che cosa proponete, in cambio del mantenimento delle entrate?
Servono norme più chiare sulla localizzazione degli autovelox, in modo che puntino tutto sulla prevenzione e non sui benefici di cassa. Il 50% delle entrate deve servire alla viabilità e si possono studiare controlli più efficaci sul loro effettivo impiego.
Questo potrebbe risolvere anche il problema dei mancati investimenti?
Per far riprendere gli investimenti bisogna correggere il patto di stabilità. Si potrebbero pensare correzioni selettive, che diano fiato alle spese considerate più significative. Tra queste non può mancare la mobilità, proprio per il costo sociale enorme prodotto dai mancati investimenti.
G.Tr.