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 2009  dicembre 06 Domenica calendario

GARIN, GENIO PENDOLARE

Nel corso degli anni Eugenio Garin è tornato più volte a riflettere sul senso della propria vita di studioso, di uomo di scuola, di cittadino, non solo presentando nuove edizioni di precedenti lavori, ma con sobri ricordi autobiografici, senza mai indulgere a toni romantici o giustificativi. Sicché per ripercorrerne la vita e l’opera sarebbe sufficiente rileggere, per esempio,l’ampio scritto autobiografico Sessanta anni dopo (pubblicato da «Iride» nel 1989) o anche i più rapidi Ricordi di scuola , del 1996 (negli «Annali di storia dell’educazione») e Mezzo secolo dopo («Belfagor» 1998) e semplicemente annotarli con rinvii storici e bibliografici.
Ma la sede della Normale richiede, anzi impone, un ricordo diverso, anche personale, di un grande maestro che qui ha ritrovato, nell’ultimo decennio della sua attività di professore, «quel rapporto di umana collaborazione e amicizia senza il quale scuola non si dà» («Iride» 91): il 68, aveva segnato irrimediabilmente «la fine di un tipo di scuola universitaria» quella nella quale si era formato e aveva creduto.
Potremmo cominciare dunque di qui, da questa Scuola ove si è come rifugiato, accettando un invito di cui gli fu personale latore Giuseppe Nenci: la Normale aveva tentato di averlo già qualche anno prima e Nenci mi confidò il proprio imbarazzo e il timore di ricevere una seconda risposta negativa. Fui io a consigliarlo di andare personalmente da Garin, lo avrebbe trovato certo più disponibile, sapendo da Garin stesso l’insopportabile disagio che gli aveva creato la sua facoltà fiorentina. Così fu: nel 1974 venne in Normale. Ho preferito, mi scriveva, riprendere a fare il pendolare allamia età piuttosto che continuare ad assistere alle batracomiomachie della mia facoltà. Il 68 e gli anni seguenti avevano messo in crisi una facoltà di antico prestigio che perse di colpo – questo il risultato della contestazione fiorentina – tre dei suoi maggiori maestri: con Eugenio Garin lasciarono Firenze per Pisa Giuseppe Nencioni e Gianfranco Contini. Per Garin, fiorentino nell’animo, anche se nato a Rieti e di famiglia savoiarda scesa a Firenze dopo l’unità, fu un passo difficile: Firenze era la sua città, come più volte ha scritto, tornando ancora negli ultimi anni, con passione, sulla "missione" che Firenze aveva avuto nella storia e che avrebbe dovuto ritrovare, anche se la città gli pareva ormai «messa in vendita» come si esprimeva in una delle sue ultime interviste. E tuttavia il passaggio a Pisa fu, culturalmente e didatticamente, come una liberazione, il ritorno a un tempo perduto: «l’insegnamento di una materia speciale alla Scuola Normale pisana, in un rapporto di collaborazione amichevole e con un piccolo gruppo, mi fece ritrovare, alla fine, la scuola e finire serenamente un lavoro durato ininterrotto più di mezzo secolo» («Annali», 270).
Quella scelta di fare il pendolare (a Pisa non volle mai dormire, anche se Nenci gli aveva offerto un appartamentino all’ultimo piano del Timpano) era la sua risposta aiconati riformatori del Sessantotto che avevano fortemente marcato la facoltà fiorentina pervasa da scosse di sinistro demagogismo; era soprattutto la conferma di voler continuare a esercitare quell’attività di insegnante che rappresentò sempre per lui un impegno scientifico e civile: «Insegnare mi è sempre piaciuto molto – dichiarava nel colloquio con Renzo Cassigori ”. Ho sempre fatto scuola... Se credessi, come non credo, che possiamo avere altre vite, rifarei la scelta di insegnare».
La scuola, l’insegnamento: chi vada con la memoria, sulla traccia dei ricordi di Garin, agli anni della sua formazione, al liceo come all’università, ha veramente l’impressione di una distanza siderale da quei tempi, con una disperata convinzione del non ritorno. (...) Chi abbia oggi notizia della situazione dei licei e degli esami di maturità può verificare la distanza siderale cui facevo cenno: malgrado la pur viva presenza di alcuni bravissimi insegnanti, la scuola ha perduto ogni legame con l’università (della quale per i docenti era spesso l’anticamera), dimenticata da ogni classe politica, preda delle più corporative spinte sindacali; si è creduto di renderla moderna e democratica non ammodernandone le strutture, ma abolendo ogni reale processo selettivo di docenti e studenti. Circolo vitale per tutta la lunga vita di Eugenio Garin che non è mai venuto meno al suo impegno, ma rifiutando con sdegno la mitologia dell’intellettuale organico, che rischia, scriveva, «di diventare un " traditore" della funzione stessa dell’intellettuale, che è quella di essere sempre, innanzi tutto, la coscienza critica, e la riflessione teorica consapevole della situazione civile del paese».
Per questo, di fatto, isolato – seppure circondato sempre da grande stima – laico intransigente, vicino alla sinistra, anche da questa omaggiato, ma visto con so-spetto, sorretto da una fiducia profonda nella sua attività di studioso, confortato dall’affetto e dalla costante collaborazione della sua Maria,Garin all’alba del nuovo secolo doveva sconsolato constatare: «Non sono mai stato un ottimi-sta, ma oggi ho un senso di sconfitta della ragione come non ho avuto nei momenti più cupi della guerra» («Colloquio», 61).