Francesca Paci, La Stampa 6/12/2009, 6 dicembre 2009
GLI ORFANI DEI GHIACCI GIOCANO AI VICHINGHI
La patria degli iceberg torna a essere la terra di Erik
Boom di turisti e per i petrolieri è terra di conquista
All’inizio degli anni 80, quando gli «Osterman» lasciarono la tundra per il villaggio costiero di Qassiarsuk, Dorthe aveva appena compiuto la maggiore età e sorrideva già come sua madre con i denti rovinati dai lunghi inverni a masticare pelle di foca, fino a renderla malleabile. La figlia Sofie, che s’iscriverà alla facoltà di economista nella capitale Nuuk, di foca non vuol sentire parlare neppure a tavola: molto meglio i broccoli e le zucchine, che crescono ormai generosi negli orti a ridosso delle casette con il tetto spiovente. Qui, tra i fiordi dove fluttuano blocchi di ghiaccio grandi come autobus, il surriscaldamento del pianeta sta scongelando la vegetazione scoperta nel 986 dal leggendario condottiero vichingo Erik il Rosso, impressionato al punto da battezzarla Groenlandia, terra verde. Ci vorranno ere geologiche prima che si compia il ciclo inziato nel XIII con la glaciazione che ibernò l’84% di quest’isola grande sei volte l’Italia, ma nel frattempo i suoi 57 mila abitanti assaporano il tepore della primavera.
«Il ghiaccio si scioglie a una velocità che i computer non avevano previsto», ammette il direttore dello European Environment Agency Jacqueline McDlade. In meno di un secolo la temperatura dell’Artico ha avuto un’impennata tre volte superiore al resto del mondo. Secondo il rapporto del «British Antarctic Survey», gli iceberg del Mar di Groenlandia, fotografati dai satelliti della Nasa, si spostano ogni anno di 100 metri, perdendo 84 centimetri del volume. Se il termometro globale dovesse raggiungere il tetto di 4 gradi al di sopra del livello preindustriale, ammonisce l’«Intergovernmental Panel on Climate Change» dell’Onu, la catastrofe ambientale sarebbe inevitabile.
Nel frattempo, però, le coste di Ilulissat, 4500 anime e 5000 cani da slitta all’ombra del Sermeq Kujalleq, il più imponente ghiacciaio dell’emisfero Nord che produce 35 miliardi di tonnellate di ghiaccio l’anno, hanno scoperto il turismo. «Il clima è mite come in altre parti d’Europa e il viaggio è diventato più accessibile», dice Jens Thumassen, titolare di un bed&breakfast, tre stanze in una casetta azzurra affacciata sulla Disko Bay. Si è reinventato ristoratore nel 2005, dopo una vita a pescare: «Uscivo con la barca che aveva costruito mio padre con il legno trasportato dalla corrente, l’unico materiale disponibile in una terra senza alberi. Ma il mare è cambiato, adesso bisogna gettare molta lenza e i pesci sono piccoli». Molto meglio rivolgersi alla terraferma: dal 2004 ad oggi le navi da crociera in arrivo tra i fiordi sorprendentemente ospitali sono aumentate del 250%.
«Alterazioni relativamente ridotte della temperatura possono in una prima fase risultare positive, soprattutto nelle zone estremamente fredde», spiega Bob Ward del «Grantham Research Institute on Climate Change» della London School of Economics. L’effetto serra che, per quanto obiettino gli ecoscettici, sta decimando i magici gabbiani-avorio canadesi e ha ridotto a 20 mila gli orsi polari, abituati a nuotare tra un iceberg e l’altro ma impreparati alla distanza sempre maggiore che li separa, corrode il ghiaccio ma risparmia i suoi abitanti.
«Alcune zone dell’Artico possono raggiungere la civilizzazione», scrive Alun Anderson nel saggio «After the Ice». Abituati a non fidarsi del cielo, soVahalla popolato da divinità guerriere come Anigan, signore delle tenebre, e la sorella Malina che lo insegue cavalcando il sole, gli eschimesi hanno la pelle dura come la balena Narwhal, uno dei mammiferi più rari, di cui si è autorizzati a cacciare qualche esemplare per la tradizionale zuppa. Non basteranno le due navi commerciali tedesche, che un mese fa hanno attraversato il leggendario passaggio a Nord-Ovest vagheggiato dagli inglesi sin dal 1553 per convincerli delle buone intenzioni dell’Artico. Ci vorranno 20 anni, sostengono gli esperti, perché diventi «un mare aperto». Loro intanto continuano a vivere alla giornata, organizzandosi per il domani con un cauto «emahaj», che nella lingua nativa significa «forse», variante laica e disincantata dell’inshallah mediorientale.
Certo, la dieta ferrea a cui sono sottoposti gli iceberg sta portando alla luce insieme all’erba risorse promettenti. «Nel mare di Barents sono sepolti 3819 miliardi di metri cubi di gas, uno dei maggiori giacimenti mondiali», nota Oddgeir Danielsen, consigliere del «Norwegian Barents Secretariat». Secondo lo «United States Geological Survey», la Groenlandia custodisce il 30% del gas mondiale non scoperto e il 13% del petrolio. Per non parlare di piombo e zinco, il cui prezzo sui mercati è schizzato del 69 e 124%. I groenlandesi lo sanno e, ringalluzziti dal vento di primavera, l’estate scorsa hanno votato in massa per l’indipendenza dalla Danimarca, rinunciando al sussidio di 370 milioni di sterline spedito ogni anno da Copenhagen. Ma sono temprati dalla caccia e sentono il richiamo della nuova corsa all’oro.
«La nuova guerra si combatterà nell’Artico», osserva Roger Howard nel volume «Arctic Gold Rush». I cinque attori della scacchiera nordica - Russia, Usa, Canada, Danimarca, Norvegia - hanno già fatto le prime mosse destando l’attenzione degli outsider.
«Stiamo lavorando molto bene, l’estrazione dello zinco è stata agevolata dall’innalzamento della temperatura», concede Nick Hall, amministratore delegato della Angus&Ross, la società britannica proprietaria della miniera di zinco Black Angel, accessibile da quando il South Lakes Glacier ha cominciato a ritirarsi. Sul mare di Barents sventola già la bandiera della Gazprom, vale a dire Putin, mentre quelle di Chevron, Exxon, della canadese Husky Energy, sono piantate sulla costa orientale, l’Arabia Saudita del Nord.
«Tutti s’interessano a noi», scherza Margrethe H., insegnante a Uummannaq, isola di 1300 persone 500 km a Nord del Circolo Polare Artico, celebre per la musica heavy metal dei Siissisoq, che, in un gioco di specchi, cantano la scomparsa dei mammiferi africani. L’aspirante economista Dorthe Osterman ascolta spesso le loro canzoni: la storia si ripete, per ora quassù splende un sole che scalda.