Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  dicembre 06 Domenica calendario

a sua fonte di ispirazione è la malinconia. "I miei film", dice, "nascono tra Natale e Capodanno, il periodo che meno sopporto" Ma soprattutto nascono dalla sua infanzia che ora racconterà nel prossimo lavoro insieme a Sean Penn

a sua fonte di ispirazione è la malinconia. "I miei film", dice, "nascono tra Natale e Capodanno, il periodo che meno sopporto" Ma soprattutto nascono dalla sua infanzia che ora racconterà nel prossimo lavoro insieme a Sean Penn. Dagli esordi al successo a Cannes per "Il divo", confessioni di un ragazzo di quarant´anni che si innamorò del cinema in una sala parrocchiale di Napoli In questo momento la situazione è abbastanza tragica e, per chi comincia adesso, è veramente complicato Fa impressione la disistima che c´è per la cultura alta SILVANA MAZZOCCHI Roma ad accenderlo è la malinconia, «un sentimento meraviglioso, non gradasso come la felicità, doloroso invece, e che dà un´intima soddisfazione. E non è un caso se i miei film li ho quasi sempre pensati tra Natale e Capodanno, nel periodo più malinconico che c´è». Paolo Sorrentino, quarant´anni, autore acclamato di film cult come Le conseguenze dell´amore o di riconosciuto prestigio come Il divo, vincitore a Cannes nel 2008 del Premio della giuria, mentre parla fuma a raffica, quattro sigarette in un´ora («durante la giornata la media cala», giura). «La malinconia è l´ideale per pescare le idee dal tempo dell´infanzia. Chi disse che ciò che accade di definitivo nella vita, succede entro gli undici anni? Per me è andata proprio così: Anche Il divo è nato dalla suggestione di un ragazzino che vedeva continuamente Andreotti in tv… quell´uomo, evidentemente, aveva colpito molto il mio immaginario, forse perché per me coincideva con il lupo mannaro che, secondo quel che allora usavano dire magari scorrettamente i genitori, poteva comparire all´improvviso in fondo al corridoio». Del cinema lui, che è insieme autore, sceneggiatore e regista, evoca l´approccio amoroso, iniziato verso i diciotto anni e poi in continua ascesa. Una passione. Soprattutto adesso che Cannes gli ha aperto il mercato internazionale e lui si prepara a girare This Must Be the Place, (da una canzone dei Talking Heads) prima a Londra in primavera, quindi a New York e un po´ in giro in tutti gli Usa, con protagonista Sean Penn. « la storia di una ex rock star, cinquantenne, che si rifà alla musica dark degli anni Sessanta, ma che ha deciso di non suonare più. un film sul rapporto padre-figlio, e mi è venuto in mente mentre mi arrovellavo sui criminali nazisti nascosti ancora in giro per il mondo. Avevo letto qualche articolo di giornale su quelli di loro che vivono come trentenni, mentre di anni ne hanno novanta, e giravo e rigiravo intorno a questo spunto quando, all´improvviso, ecco l´idea di sviluppare il rapporto padre e figlio, anche se poi ci saranno anche i nazisti. Il problema è che questo film non l´ho pensato a Natale e dunque speriamo bene. Però… ecco è successo in aereo quando, nel maggio scorso, ero andato a presentare Il divo a Pordenone e stavo tornando da Trieste a Roma. E, a ben considerare, l´aereo è quasi come il Natale, lassù c´è un´ossigenazione diversa dalla realtà, che ti istupidisce, ti rende ovattato, e di nuovo compare quella malinconia che ti prende guardando il mondo dall´alto». Sottolinea che la suggestione del rapporto con il padre (il suo è scomparso quando era molto giovane) gli è arrivata ancora una volta dalla sua infanzia: « così, anche se non mi piace fare autobiografia. Per Le conseguenza dell´amore, andò allo stesso modo. Se ci si pensa bene, i bambini vivono ampi varchi di noia e di solitudine. E io ho capito che la solitudine di quando ero bambino si poteva trasferire a un uomo di cinquant´anni». Sorride sornione: «Quel film si sarebbe potuto chiamare Le conseguenze della solitudine». Paolo Sorrentino da ragazzo al cinema ci andava d´estate, durante le vacanze. Poi, verso i diciotto anni, i film divennero il suo pane quotidiano. «Ero onnivoro, mi ero messo in testa di fare questo lavoro e tentavo di capire il più possibile. La scuola era complicata per me: il centro sperimentale accettava solo sei persone, e mi sembrava davvero troppo difficile entrarci. A Napoli esistevano ancora i cinema d´essai che facevano rassegne, erano gli ultimi sprazzi. Io andavo in una specie di sala parrocchiale. I miei modelli? Fellini e Scorsese, di loro mi piacciono tutti i film, mentre di molti altri magari mi porto dentro solo una o due cose. Da ragazzo studiavo Economia e commercio ma, a cinque esami dalla laurea, lasciai perdere e decisi di provare seriamente a fare questo lavoro. Nel ´94 feci il salto nel buio. Cominciai a lavorare come sceneggiatore per La squadra. Ero strapagato, scrivevo velocemente e guadagnavo bene. Avevo già vinto il premio Franco Solinas con la sceneggiatura di Dragoncelli di fuoco, un film sull´ossessione della gastronomia e delle gare di cucina. Una storia grottesca. Io ho sempre amato il grottesco e in principio credevo addirittura che rendesse più liberi, poi mi sono reso conto che non è così, che era una trappola, perché la libertà nelle arti si acquisisce con il tempo e non con un genere. Anzi, meno male che quel film non lo feci. In seguito, con gli anni, ho capito che la realtà possiede tutto quello che serve e a me interessano le deformazioni realistiche e grottesche della realtà». L´esordio per Sorrentino sceneggiatore fu Polvere di Napoli di Antonio Capuano, «un regista che stimavo molto». Qualche anno dopo si concretizza il primo film, L´uomo in più. «E di nuovo ecco il Natale e la malinconia. Le feste non mi sono mai piaciute, così l´idea mi venne alla Vigilia e il 31 dicembre portai la sceneggiatura finita a Toni Servillo. Era il 1999, Toni era già un attore di teatro molto affermato, e io lo conoscevo poco, tipo buongiorno e buonasera, niente di più. Gli detti la sceneggiatura tramite il suo produttore teatrale, ma lui non la leggeva. Dopo sei mesi d´attesa, ad Angelo Curti (il produttore ndr) venne l´idea risolutiva, lo chiamò: "Non leggerla più, abbiamo già trovato l´attore". Fu così che Servillo la divorò in mezz´ora. Gli piacque e subito disse "lo faccio io". Toni è straordinario e, come accade agli attori più intelligenti, ha la capacità di penetrare le psicologie molto di più di quanto può fare l´autore in un anno di lavoro». Sorrentino parla volentieri dei suoi film, con l´eccezione di L´amico di famiglia, sul quale sorvola. «L´avevo pensato per Giacomo Rizzo, ma il film era troppo costruito, ho voluto innestare una commedia su una figura ributtante che della commedia è proprio il contrario. Mentre Il divo, no… non mi aspettavo il clamore che ha suscitato e, del resto, gli esiti di un film sono imprevedibili: possono essere meravigliosi e non avere successo ed esserlo meno e andare alla grande. Il divo è stato faticoso, complicato, ma farlo è stato davvero entusiasmante. C´era una grande allegria e compattezza di squadra, a volte divertimento. Abbiamo girato per dieci settimane, un tempo nella media. La preparazione invece era stata lunga, quasi un anno, e un mese per la sceneggiatura: io scrivo molto rapidamente». «Quando Andreotti lo vide disse che era una mascalzonata, e questo si sa, ma è singolare quanto aggiunse: e cioè che il film, molto impreciso sulla sua vita pubblica, era al contrario molto preciso su quella privata. Affermazione stravagante: io sulla sua vita pubblica mi ero molto informato, mentre sul suo privato avevo lavorato di fantasia, compreso lo srotolamento di dolore che nel film lui prova per la fine di Moro». Di Andreotti parla con rispetto, sembra quasi che lo rimpianga, lui e la Prima Repubblica. «Un punto di vantaggio loro ce l´avevano. Su alcune cose avevano una spregiudicatezza incredibile. Non a caso la P2 era di quegli anni, e nella Dc, nel Psi c´erano persone veramente irritanti, ma rispettavano un certo stile, una misura e un senso del confine e della vergogna che oggi sono caduti». Autore, sceneggiatore, regista, non è un po´ troppo per un uomo solo? «Lo faccio perché ho l´impressione che così non perdo tempo, e mi sento più libero. Ma non è sempre così, That Must Be the Place, l´ho scritto con Umberto Contarello». Ha qualche film irrealizzato Sorrentino? «Tutti i registi e gli sceneggiatori ce l´hanno e io mi tengo stretti i miei come fonte d´idee. Più di ogni altro però mi piacerebbe fare un film dal romanzo di Raffele La Capria Ferito a morte. Ho già anche la sceneggiatura pronta, che aveva anche moderatamente deluso La Capria, il che è un buon inizio. Perché ogni volta che l´autore di un libro rimane deluso, si rischia di fare un buon film. Accade spesso, si pensi a Il giardino dei Finzi Contini, che a Bassani non piacque per niente». «Questo non è certo un buon momento per il cinema italiano - aggiunge -. La situazione è abbastanza tragica e, per chi comincia adesso, è veramente complicato. Fa impressione la disistima che c´è per la cultura alta. Si dichiarano sconcezze del tipo: il cinema è morto ed esiste solo la fiction, peccati mortali che Andreotti non avrebbe mai detto. Si investono centinaia di milioni di euro nella fiction e vengono sottratte le già povere risorse al cinema, al teatro, alla danza. E in questa situazione non si può sperimentare. Anche se bisogna ammettere che l´assistenzialismo ha prodotto grandi aberrazioni: registi di sinistra che hanno fatto magari quindici film mentre non meritavano di farne neanche mezzo». Esiste un metodo di lavoro, un "sistema Sorrentino"? «Io scrivo soprattutto la mattina e ascolto musica, sempre. Sono quasi ossessionato dalla musica, con scarsa predilezione per il jazz, ma per il resto l´amo tutta. La musica ha a che fare con la malinconia, e spesso quelle stesse musiche che ascolto mentre scrivo le raccolgo e le metto sopra alla sceneggiatura. E quasi sempre funziona. come con le immagini. In fondo il cinema è la capacità di vedere qualcosa prima, quando ancora non esiste. Un talento che un po´ si coltiva, con i film, i quadri, ma soprattutto con le fotografie. Un´arte un po´ trascurata e che invece è fondamentale. Io, da quando avevo diciotto anni, ho sempre comprato libri di fotografie. Steven Shore, Berengo Gardin, una loro foto su due potrebbe essere lo spunto per un buon film».