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 2009  dicembre 06 Domenica calendario

Gentiluomo, viaggiatore, candidato al trono d´Ungheria, uomo carismatico e dotato di una volontà di ferro

Gentiluomo, viaggiatore, candidato al trono d´Ungheria, uomo carismatico e dotato di una volontà di ferro. Cent´anni fa Luigi Amedeo portò a termine la sua più grande impresa: dopo i ghiacci del Polo Nord e le vette africane, si misurò primo al mondo con il K2 e toccò l´altitudine-record di 7.500 metri. Ora un convegno e un prezioso volume della Società Geografica lo celebrano STEFANO MALATESTA le imprese degli esploratori arrivati in ritardo nella gara delle grandi scoperte, quando non c´era quasi più nulla da attraversare se non i luoghi estremi della terra, coperti dal ghiaccio perenne, hanno qualcosa di patetico come tutto quello che arriva in anticipo o in ritardo e si trova spaesato in un tempo non suo. Il Duca Luigi Amedeo degli Abruzzi, gentiluomo, viaggiatore, scalatore, sportivo, esploratore del polo e delle montagne himalayane, geografo e anima intrepida, è stato probabilmente per una quindicina di anni il più famoso frequentatore di montagne e descubridor di poli. Ha compiuto imprese che la stampa anglosassone, sempre così restìa a informare di qualsiasi fatto e detto al di là della Manica, seguiva sempre con articoli di stupefatta ammirazione. Ma i suoi viaggi, sotto l´apparenza della scienza geografica e geologica, così venerata nell´Ottocento, secolo di ferro, non avevano più l´urgenza di rivelare quello che si nascondeva dietro una montagna e poi ancora dietro un´altra montagna. Ed erano differenti da tutti quelli che li avevano preceduti. Le generazioni vittoriane della seconda metà del Diciannovesimo secolo sembravano aver soddisfatto la loro brama motoria, scavando e setacciando in lungo e in largo qualsiasi territorio capitasse loro davanti. Anche il Tibet, una landa sempre citata come la quintessenza del remoto, dell´irraggiungibile e del magico, dove si nascondeva tra i monti Kun-lun il paese dell´eterna giovinezza chiamato Shangri-là, era stato invaso da una spedizione inglese guidata da Younghusband, un personaggio britannico che usava apertamente la violenza e aveva impiccato i monaci tibetani davanti ai monasteri. Rimanevano ancora discretamente ignote le immense distese australi oltre lo stretto di Drake, perennemente coperte di ghiaccio; e il Polo Nord, con il mare artico percorso da iceberg in libera uscita. A questi due spazi orizzontali bisognava aggiungere gli spazi verticali: l´Himalaya, la catena montuosa asiatica che contava le quattordici vette oltre gli ottomila metri, secondo quanto avevano certificato le recenti ricognizioni trigonometriche dell´Indian Survey. Dopo essere stata ignorata per secoli, era tornata al centro dell´attenzione di inglesi e russi durante gli anni del Great Game, quando era stata percorsa, nelle sue vallate, da spie mascherate da geografi e da militari britannici. Salire a rischio della vita su per queste montagne non accresceva di molto la nostra coscienza geologica e poteva attirare il sospetto della futilità. Ma gli inglesi avevano trasformato questo quotidiano lavoro da guida valdostana in una vacanza indimenticabile, che attirava molto gli snob dell´avventura. Gli asiatici che abitavano nell´immenso plateau dell´Asia centrale non si erano mai sognati di scalare quelle cime, ritenute luoghi sacri (il nome tibetano di Everest è Chomolungma, la Dea Madre del Mondo). Mentre gli inglesi avevano una debolezza per le imprese difficili, realizzate in luoghi che più pericolosi erano, meglio andava. Il Duca degli Abruzzi era uno di loro: il tipo di piemontese che credeva al valore taumaturgico del passeggiare in altitudine, qualcosa che aveva a che fare più con il rigore morale che con la forza fisica. Una delle più vistose differenze tra le spedizioni dell´epoca vittoriana e di quella edoardiana riguardava l´accesa rivalità tra gruppi di diverse nazioni, che aveva ridotto i viaggi a diventare una sorta di vetrina delle supposte qualità nazionali. Personaggi come Stanley, e in un senso diverso come il Duca degli Abruzzi, si erano molto allontanati dalla emaciata figura dei martiri della geografia alla Livingstone, stroncati dalla malaria o dalle infinite malattie che infestavano l´Africa. In particolare il Duca era in una posizione tale di status personale e di rendita economica, da lasciarsi andare alla sua passione per le montagne senza porsi troppi problemi. Da ragazzo era salito su quasi tutti i quattromila europei e dopo l´incontro con un grande scalatore e ottimo economista, l´inglese Mummery, si era convinto che la vera sfida era con il Nanga Parbat: un gigante al cui cospetto le montagne nostrane sembravano dei paracarri, che presentava una parete assolutamente liscia lunga più di tremila metri. Ma l´Himalaya dovette aspettare qualche anno: per la sua prima ascesa fuori del territorio italiano il Duca scelse il Monte St. Elias in Alaska, accompagnato da Umberto Cagni, intrepido e bellissimo ufficiale di marina; da Vittorio Sella, che aveva fondato il Club alpino italiano nel 1863 e che è considerato il più grande fotografo di montagna di tutti i tempi; e da un medico di trent´anni, Filippo De Filippi, che diventò il cronista di questa e di altre spedizioni. Un´avventura che rese il nome del Duca familiare nei circoli sportivi inglesi, e americani soprattutto. Più tardi scalerà anche il Ruwenzori, montagna che nelle antiche mappe era segnata come "il monte della luna", dando il nome della Regina d´Italia alla vetta più alta. Quando venne invitato a una conferenza sull´ascensione a Londra, alla Royal Geographical Society, tra i numerosi elegantissimi ospiti c´era anche il re d´Inghilterra Edoardo VII. Ma l´impresa che lo rese celebre fu il tentativo di raggiungere il Polo Nord seguendo l´esempio di Nansen, l´intrepido norvegese che aveva attraversato con gli sci la Groenlandia e con la Fram era sbarcato sul pack raggiungendo il punto più a nord mai toccato da un uomo. Era una scelta che rientrava nella nostra tradizione. Uno dei primi a raggiungere il Capo Nord era stato un italiano, Francesco Negro, intorno alla metà del Seicento. I viaggi italiani anche a scopo scientifico erano continuati fino a tutto l´Ottocento: un certo Bove aveva cercato i passaggi a Nord-Ovest e, insieme a Nordenskjold, il Conte Zileri e Enrico di Borbone erano stati i primi ad esplorare la Nuova Zemlia e le Svalbard. Quella di Luigi Amedeo fu una spedizione sfortunata e ardua. Il Duca, che si era ritrovato con una mano congelata e aveva dovuto tagliare le ultime falangi per evitare che la cancrena si diffondesse, si era ritirato lasciando il comando a Cagni. La successiva marcia di oltre cento giorni nel ghiaccio perenne, insieme con la guida valdostana Petigaz, una performance giudicata impossibile, venne subito avvolta nel mito. Cagni era andato oltre venti km più a nord di Nansen, ma qualsiasi risultato geografico veniva strumentalizzato da quel nazionalismo demenziale che avrebbe spinto l´Europa nel baratro della Prima guerra mondiale. Finalmente il 1909 fu la volta della tanto attesa spedizione sull´Himalaya, definita un modello di stile e di efficienza da Maurice Isserman e Stewart Weaver, gli autori di Fallen Giants, il testo himalayano più autorevole. L´esploratore italiano voleva scalare una montagna che avesse cime di ripiego, nel caso di un fallimento alla vetta. Per questa ragione scelse il K2, non il Nanga Parbat. Raggiunse prima il Concordia, un anfiteatro nato dall´unione di due immensi ghiacciai: il Baltoro e il Godwuin Austen. «A un tratto, dopo aver superato lo sperone - raccontò De Filippi - ci apparve tutto intero il grande vallone del Godwuin Austen. Nel fondo, solo, separato da ogni altro monte si stagliava con tutta la sua sovrana grandezza il K2». Dal ghiacciaio Luigi Amedeo si mosse sempre accompagnato da guide valdostane, sempre salendo verso la cima principale: allevato secondo metodi militari spartani e scalatore improprio, il Duca aveva una resistenza incredibile ed emanava una sicurezza che andava a riscaldare gli animi dei suoi amici, ma intanto la nebbia si era fatta sempre più fitta e fu deciso di fermarsi e tornare indietro. Faceva sei gradi sotto lo zero a un´altitudine di 7.498 metri, che all´epoca costituiva il record del mondo. Battuto solo nel 1922 dagli inglesi che tentarono di scalare l´Everest. I suoi viaggi così vari e frequenti ebbero fine dopo la Prima guerra mondiale, quando il Savoia si trasferì in Somalia. La sonnolenta colonia, abituata al ritmo lentissimo delle oasi, assistette stupefatta all´attività in suo favore di un personaggio come Luigi Amedeo, che rivoluzionò le piantagioni di banane fondando un villaggio a cento chilometri a sud di Mogadiscio. In quegli anni di lui si parlava come di un possibile candidato al trono ungherese, che risultava vacante. Ma Luigi Amedeo continuò a rimanere in Africa assistito da Faduma Ali, una bellissima ragazza somala che gli altri Savoia si erano rifiutati di conoscere. Aveva un tumore alla prostata e preferì restare in quella colonia così semplice e così lontana dall´Europa piuttosto che ritornare in Italia accolto da quelle che lui chiamava ipocrisie. Quando morì nessun Savoia era presente al funerale.