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 2009  dicembre 04 Venerdì calendario

Che cos’hanno in comune l’uomo tecnologico capace di comunicare in tempo reale coi quattro angoli del pianeta e il suo diretto predecessore che solo vent’anni fa ricorreva al gettone per avvertire la fidanzata d’essere imbottigliato nel traffico? Per quanto diversamente accessoriati, entrambi passano buona parte delle loro giornate facendo la coda

Che cos’hanno in comune l’uomo tecnologico capace di comunicare in tempo reale coi quattro angoli del pianeta e il suo diretto predecessore che solo vent’anni fa ricorreva al gettone per avvertire la fidanzata d’essere imbottigliato nel traffico? Per quanto diversamente accessoriati, entrambi passano buona parte delle loro giornate facendo la coda. Secondo uno studio della società di aste online Madbit.com, trascorriamo aspettando qualcosa di assai meno metafisico del Godot beckettiano ben cinque anni della nostra vita, sei mesi dei quali incolonnati alla cassa del supermercato, in banca, al semaforo. «Il progresso non c’entra, le poste offrono oggi molti servizi in rete ma gli utenti continuano a preferire lo sportello», osserva Marco Managò, autore del saggio «Italiani in fila», pubblicato da Serarcangeli Editore. Delle circa 400 ore l’anno perse in attesa del proprio turno, 190 se vanno in un ufficio pubblico. Le altre, calcola la think tank Vision & Value, sono bruciate al volante e distribuite asimmetricamente lungo lo stivale: 227 a Roma, 140 a Palermo, 98 a Milano. Un lusso, sostiene il Codacons, che costa ai consumatori almeno 40 miliardi di euro. Il valore del tempo è riconosciuto universalmente, il modo d’investirlo invece varia con la latitudine. Marco Managò ha ricostruito la storia della coda, dai signorotti secenteschi di manzoniana memoria che scavalcavano impunemente quelle per il pane alle migliaia di fedeli allineati davanti a San Pietro nel 2005 per l’ultimo saluto a Giovanni Paolo II. «L’attitudine all’attesa svela molto dell’indole profonda di un Paese», spiega. L’86% degli italiani considera lo stare incolonnati per ore in ospedale o all’anagrafe ragione di stress, eppure solo il 75% ammette d’averne davvero paura. Merito della proverbiale socievolezza latina, antidoto allo stillicidio della convocazione allo sportello al punto che solo un nostro connazionale su dieci pensi di distrarsi leggendo un libro? O colpa dell’altrettanto nota idiosincrasia alla fila che ci colloca ben lungi dai primi dieci virtuosi popoli che la rispettano educatamente? Il Regno Unito, primo nella classifica che include Germania e Giappone, considera una certa dose di attesa naturale come il maltempo. E non conta che il 10 febbraio 2005 tra i seimila ammassati all’ingresso del nuovo magazzino Ikea di Londra nord per un divano in pelle da 45 sterline (50 euro) ci sia scappato un accoltellato, variante anglosassone dei tre morti nella medesima circostanza in Arabia Saudita. L’82% degli inglesi è convinto che pazientare fino al proprio turno sia un’onorevole tradizione britannica. Se l’associazione ufficio pubblico-folla è sinonimo indiscutibile d’inefficienza, il marciapiede gremito di un negozio può comunicare il messaggio opposto. Altrimenti un anno fa la Orange Polonia non avrebbe ingaggiato decine e decine di comparse pagate per accompagnare il lancio dell’iPhone stazionando davanti ai rivenditori di Varsavia e Cracovia. Più spesso però l’attesa provoca disagi organizzativi o fisici, come l’ansia agorafobica della piazza e la chiraptofobia, la paura d’essere toccati. Il risultato, nota la psicologa, Carol Rothwell, è un’elettricità diffusa da prima della pioggia: «Con Internet ci siamo abituati ad avere i servizi in tempo reale e siamo assai più intolleranti al gap tra il desiderio e la sua soddisfazione». Sarà per questo che analisti di marketing e creativi si sono messi a studiare il fenomeno e oggi mentre ciondoli con lo zaino sulle spalle al gate Ryanair preso d’assalto dai passeggeri senza posto assegnato puoi incappare nella hostess che vende per 3 euro il diritto di scavalcare la fila. Il tempo è denaro e non si spreca: parola di quel giudice pioniere di Milano che nel 1992 condannò il Comune a risarcire 400 mila lire dell’epoca all’avvocato Giuliano Votta per il tempo buttato a contestare una multa ricevuta ingiustamente. Un’eccezione ancora, d’accordo. Ma, insegnano le associazioni dei consumatori, tutto sta a cominciare. Se siete arrivati sin qui vi starete domandando quanta della vostra vita è già sfumata in inutili attese, dai saldi natalizi ai controlli di sicurezza negli aeroporti blindati dopo l’11 settembre 2001. C’è un modo per recuperarla, suggerisce il fotografo Misha Haller, che ha trascorso un anno immortalando gente in fila negli angoli più remoti del pianeta: «Aspettare non è necessariamente tempo perso, basta considerarlo una parentesi di relax nell’iperimpegnata routine quotidiana». Un po’ come assaporare il gusto di cercare una cabina telefonica per fare gli auguri alla mamma, sapendo di avere il cellulare in tasca. www.lastampa.it/paci [FIRMA]ELENA LISA MILANO «Volentieri è una parola grossa. Diciamo che il tempo speso per stare in coda, in banca o nei negozi, lo perdo senza fare troppe storie. Anzi. Ho anche imparato a farmelo piacere, a viverlo bene». Luigi Tomasso, 65 anni, per i suoi tre nipotini è «il nonno che fa la fila per gli altri». Gli associati della «banca del tempo Niguarda» di Milano di cui è il vicepresidente, che ogni giorno corrono da lui con in mano qualche bolletta, lo chiamano il «factotum salva scadenze». Si rivolgono a lui anziani che non possono stare troppo tempo in piedi in attesa di una pratica da sbrigare, mamme e single a corto di minuti e di permessi a causa di figli e lavoro. «Ho la rata della macchina che mi scade tra due giorni», «Devo prenotare subito una visita in ospedale», «Ho il passaporto scaduto e parto il mese prossimo» sono le richieste che gli operatori delle banche del tempo si sentono fare dai «clienti» con l’acqua alla gola. Tra queste, però, ci sono pure quelle dei pensionati che devono ritirare il mensile in banca o andare a comprare regali nei negozi strapieni. «Quel tempo speso in fila dobbiamo ottimizzarlo - spiega Tomasso, che è anche direttore di un sito Internet, monitor delle banche del tempo italiane ed estere -. Certo, ci aiuta pensare che stiamo in fila per gli altri, come volontari. Ma questo a volte non basta». E allora bisogna correre ai ripari: «Prima di tutto, se si tratta di pubblici uffici, è utile sperimentare gli orari: non conviene andare troppo presto al mattino, a quell’ora sì che si fanno file chilometriche: meglio scegliere i minuti a ridosso della chiusura». Qualche volta però la coda è inevitabile. E allora Tomasso consiglia: «Quando le speranze di scansarla stanno a zero la soluzione è non farla da soli. La fila può diventare un ottimo momento di aggregazione». Sembrerà paradossale, ma chi non ci vuole rinunciare sono proprio gli anziani che, nel caso di bollette da pagare o commissioni da sbrigare in banca, non chiedono qualcuno che vada al posto loro, ma di essere accompagnati. Dice ancora il vicepresidente della banca del tempo milanese: «Incominciano a parlare con chi sta in fila quasi subito, perché quello è un momento di socialità unico per loro. Fanno molta tenerezza, sono lì e chiacchierano di tutto, del tempo, del cibo che non è più quello di una volta. Se si sentono molto soli, allora raccontano anche pezzi della loro vita».