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 2009  dicembre 05 Sabato calendario

Ignoro fino a qual punto credesse nell’Unità italiana. Non rimpiangeva certo gli Antichi Stati. Lo interessavano gli italiani, il loro carattere e la loro secolare cialtroneria

Ignoro fino a qual punto credesse nell’Unità italiana. Non rimpiangeva certo gli Antichi Stati. Lo interessavano gli italiani, il loro carattere e la loro secolare cialtroneria. Lo spirito nazionale Longanesi lo riconosceva in una Italietta simboleggiata da un’epica minima e stonata da staterello di terz’ordine che vagheggiava una unità mai compiuta. Per Longanesi - romagnolo come Pascoli, Oriani, Mussolini e Nenni - l’Italia unita era la provincia con le sue malizie e i personaggi delle fiere: la ballerina sul filo, il mangiatore di fuoco, il pesista con la Legion d’onore di cartone. Il bersaglio dei suoi sarcasmi era un popolo scalcinato, di gente che «teneva famiglia»; e che, sulla bandiera repubblicana, tra il rosso e il verde, quale stemma patriottico, avrebbe messo un cono gelato; un paese di transiti: dai gesti eroici dei risorgimentali al giolittismo, dal fascismo alla democrazia cristiana, dai Littoriali alle Madonne pellegrine con in mezzo due guerre «veramente mondiali». Se unità fu, quella che dal suo punto di vista contemplò Longanesi, rassomigliava a una pantomima nazionaldialettale. Eppure, molto a modo suo, più che a indicarlo e a suscitarlo, contribuì trasversalmente alla definizione di un carattere nazionale. Quel che urtava il suo nervo scoperto non era l’idealità unitaria, tutto sommato passata sulla testa del popolo. Puntò a mettere in pratica l’antica sentenza di Cavour: «Ora che l’Italia è fatta bisogna fare gli italiani». Per questa ciclopica quanto illusoria impresa mise in moto la marcia dell’ironia. Più spesso il sarcasmo. Con i suoi pamphlets moralpolitici - Piccolo dizionario borghese (1941), Parliamo dell’elefante (1947), In piedi e seduti (1948), Una vita (1950), Un morto tra noi (1952), Ci salveranno le vecchie zie? (1953), ecc. - diede passabilmente l’occasione agli italiani di riconoscersi (e per nulla redimersi) attraverso impietose e salutari radiografie. Fu un inventore di giornali: L’Italiano, Omnibus, Il Borghese che, criticando aspramente i mali congeniti d’Italia, anche se illusoriamente, indicavano una coscienza nazionale, ovvio presupposto di unità. Senza i giornali di Longanesi probabilmente non avremmo avuto i settimanali Il Mondo, L’Europeo, L’Espresso e il quotidiano Il Giorno. Longanesi spiegava la politica, la letteratura, l’arredamento, la religione, la cucina, la società, sotto l’apparente disciplina del giornalismo, attraverso il quale inventava un’Italia inesistente. Come era e come avrebbe dovuto essere sotto specie di convinzioni unitarie. Induceva i suoi collaboratori a essere più dry, più surreali, più crudeli. «La critica, se oggi la si vuol fare, occorre farla ai cappelli, alle cravatte, alle frasi, ai colori, ai caratteri tipografici, e alle facce delle persone: uniche cose che sappiano dirci in realtà a che punto siamo arrivati. Bisogna descrivere le nostre città: fare dei viaggi nelle nostre strade, nelle nostre abitazioni, nei nostri negozi. Bisogna convincersi che qui si va avanti con l’inno del Piave... Meglio è parlare dell’autostop, del Palmolive, di Buster Keaton, della penna Parker e del Plume-pudding. Noi siamo rimasti al sapone Banfi, a Francesca Bertini e al Presbitero che non scrive. L’Italia non è un Paese moderno... Io sono moderno, (come dice Petrolini) ma non all’italiana: le stoffe di Prato sono impossibili, la carta Fabriano è orribile, il Murano ridicolo, il Lloyd Sabaudo vergognoso, le stazioni ferroviarie impossibili. Non pettinatevi alla Rodolfo, imparate a selciar una strada, a impaginare un giornale... Non riesco a trovar un calzolaio che sappia farmi le scarpe... Nelle librerie accade quello che accade nelle farmacie, dove si vendono i prodotti già confezionati... La colpa non è del libraio. dei clienti i quali acquistano i libri come i saponi, dopo aver ascoltato alla radio la pubblicità di una certa marca... Ormai si possono scrivere soltanto articoli con questi titoli: La cafoneria delle classi dirigenti; Il cattivo gusto parlamentare; Dove lo avranno imparato? Studio intorno alla voce e ai gesti dei politicanti italiani...». Era la proiezione immaginifica di un Paese che si proclamava unito. Ed è questo essere contro tutti, a tutti i costi, senza scadere in qualunquismi di maniera o in vacue secessioni regionalistiche che, sia pur con un «teatrino» molto personale, con i suoi collaboratori e amici - Giovanni Ansaldo e Indro Montanelli - Longanesi «inventò» una classe sociale, la borghesia, che secondo lui lungo la penisola, la celeberrima «espressione geografica», non era mai esistita. Quella classe su cui idealmente avrebbe dovuto reggersi l’identità dell’Italia. Un Paese tenuto soltanto insieme dalla continua e strenua ricerca di una figura unificante che, con curiosa e anticipatissima preveggenza, gli faceva dichiarare il 15 maggio 1953: «Gli italiani non vogliono un dittatore: attendono un impresario». Stampa Articolo