Alessandro Barbero, La Stampa 5/12/2009, 5 dicembre 2009
Un tempo spiegare la caduta dell’impero romano non sembrava difficile. Orde di barbari erano arrivate brandendo fiaccole accese e avevano distrutto tutto
Un tempo spiegare la caduta dell’impero romano non sembrava difficile. Orde di barbari erano arrivate brandendo fiaccole accese e avevano distrutto tutto. Un quadro del 1890 di Joseph-Noël Sylvestre, Il sacco di Roma, visto recentemente alla mostra veneziana «Roma e i barbari», rende bene questo immaginario pompier delle invasioni barbariche: teutoni nudi, o coperti di pelli, sciamano nel Foro e si preparano ad abbattere una statua monumentale cingendole un cappio al collo, proprio come i marines con la statua di Saddam Hussein il giorno dopo la caduta di Baghdad. Sennonché, a un esame meno frettoloso si è scoperto che quei barbari, anche se indubbiamente vestivano di pelli e si ungevano i capelli di burro, non desideravano però nient’altro se non abitare anch’essi nei palazzi dei romani, passeggiare fra le statue e divertirsi ai giochi del circo, e che l’intero mondo romano, dalla schiava al senatore, in mancanza di alternative era disponibilissimo a soddisfarli. Perché, dunque, è finito il mondo antico? Chris Wickham, professore a Oxford e forse il più autorevole dei medievisti inglesi, ha deciso di affrontare il problema alla radice, basandosi su una rilettura integrale delle fonti scritte e ancor più sui risultati dell’archeologia, che in questi anni ha cambiato radicalmente la nostra percezione dei cosiddetti secoli oscuri. Wickham si è proposto il compito sovrumano di analizzare in dettaglio, regione per regione, da Londra a Baghdad, il tessuto economico e la struttura sociale dell’intera ecumene romana nei secoli che videro il trapasso dall’impero ai regni romano-barbarici e alla dominazione araba, senza lasciarsi sfuggire né un coccio né una vita di santo. Questa minuziosa analisi territoriale, che avrebbe potuto tradursi in innumerevoli articoli accademici, è stata invece rimontata in un unico, formidabile libro, articolato in quattro ambiti comparativi: il funzionamento dello stato, il ruolo delle aristocrazie, il mondo contadino, gli scambi. Il risultato è la prima spiegazione sistematica del perché il mondo romano giunse alla sua fine, sebbene nessuno lo volesse. Wickham non ha paura, per farsi capire, di rifarsi a un precedente scientifico, la teoria delle catastrofi usata dai matematici, «il modello secondo cui un lento cambiamento raggiunge infine una situazione in cui i funzionamenti precedenti non possono più essere sostenuti». Non è necessario che ci siano delle catastrofi ad innescare l’involuzione, anzi è più probabile che le catastrofi siano il risultato di una situazione che è diventata un po’ per volta ingestibile. Al centro c’è una nuova visione dell’impero romano, «un sistema corrotto, violento ma anche stabile», che si relazionava con la gente attraverso le tasse. Una quota preponderante degli scambi nel bacino mediterraneo era costituita dal prelievo di derrate in natura e dalla loro ridistribuzione gratuita alle truppe insediate lungo migliaia di chilometri di frontiere, e al popolo delle due immense capitali mantenute da elargizioni pubbliche, Roma e Costantinopoli. Quando i re barbari si sostituirono agli imperatori nel governo della Spagna, della Gallia, dell’Italia, e gli arabi strapparono ai romani la Siria, l’Egitto e il Nordafrica, nessuno aveva intenzione di ridurre, poniamo, la produzione d’olio o di ceramica in Tunisia; ma venuta meno la capacità del governo imperiale di stare col fiato sul collo ai produttori, di prelevare il prodotto e di trasportarlo da un capo all’altro dell’impero, poco per volta la produzione andò comunque riducendosi. In un terrificante circolo vizioso si ridusse la quantità di moneta circolante, giacché essa non era coniata per i bisogni dei mercati, ma per quelli dello stato; le aristocrazie si impoverirono, gli investimenti divennero un ricordo del passato, il know-how tecnologico si deteriorò e con esso le infrastrutture, dalle fogne agli acquedotti. Ad accusare il colpo furono soprattutto quelle aree che erano state più integrate nel sistema della fiscalità imperiale, prima fra tutte l’Italia, troppo a lungo abituata a vivere di rendita. Altre, come la Gallia del Nord, ricca e periferica, che sotto l’impero era già abituata a una certa autosufficienza, patirono di meno. Lì i potenti capi franchi e i loro guerrieri assicurarono la continuità d’una domanda che sostituì quella dell’impero e delle legioni, continuando più a lungo che altrove ad abitare ville con terme e mosaici: e non è un caso se alla fine del periodo analizzato da Wickham fu proprio il re dei Franchi, Carlo Magno, a riunificare una parte dell’antico impero e riprendere il titolo di Augusto. Ma il suo era un impero profondamente cambiato, ripiegato verso il continente, privo d’un sistema fiscale, povero e rozzo in confronto a quello che l’aveva preceduto. Roma, centralista e statalista, aveva alimentato col suo fisco un’unica civiltà in Europa e nel Mediterraneo; la regionalizzazione che si accompagnò alla sua fine significò anche un drammatico peggioramento delle condizioni di vita. Stampa Articolo