Raffaello Masci, La Stampa 5/12/2009, 5 dicembre 2009
RAFFAELLO MASCI
ROMA
La flessibilità del lavoro è sostanzialmente fallita. E l’Italia è come la Los Angeles di Blade Runner: «testardamente replicante», sempre uguale a se stessa. Il Censis, nel suo rapporto, va giù duro sulla situazione sociale - «un Paese in apnea», «un Paese che arranca» - ma soprattutto su quelle formule di lavoro «atipico» che si sono rivelate un danno immediato per i giovani e un boomerang, più in generale, per la società.
Se, infatti, l’occupazione diminuisce rispetto allo scorso anno (-1,6%), la disoccupazione aumenta (+1,2%), e le persone in cerca di lavoro lievitano dell’8,1%, il segmento che ha più risentito di questo processo recessivo è stato quello del paralavoro, «ovvero quelle formule occupazionali cresciute a metà strada tra lavoro dipendente e autonomo, che costituiscono una quota ormai importante del mercato del lavoro (a giugno erano 3 milioni 565 mila lavoratori) e hanno registrato una perdita del 4,3%. In particolare, ad essere colpite maggiormente sono state tutte le diverse forme di lavoro a termine (-229 mila lavoratori in un anno, con una contrazione del 9,4%), seguite, in misura ridotta, dalle collaborazioni a progetto (-12,1%) e da quelle occasionali (-19,9%), mentre il popolo delle partite Iva, dei collaboratori senza addetti e monocommittenti ha visto accrescere le proprie fila, raggiungendo quasi quota un milione (+132 mila, con una crescita del 16,3%), un dato, quest’ultimo, imputabile alla sostituzione di contratti flessibili con formule ancora più a basso costo».
Questo fenomeno, secondo il direttore generale del Censis Giuseppe Roma, è andato tutto a scapito dei giovani «i quali - dice il sociologo - sono oggi più formati, più tecnologizzati, molto più aperti ad esperienze internazionali, e dovrebbero costituire il punto di forza su cui poter fare leva per una ripresa. Invece che succede? Sono stati sottoccupati, tenuti a bagno maria in una situazione di precarietà strisciante che non approdava a nessun obiettivo e poi, appena avvertita la crisi, sono stati i primi ad essere espulsi dal mercato del lavoro». La stagnazione dell’Italia - lamenta il Censis - è anche in questa mancanza di prospettive per le sue generazioni più giovani.
E questo andazzo si inserisce in un quadro economico e sociale ancora più fosco. In un anno si sono persi 763 mila posti di lavoro, per effetto della crisi, un nucleo costituito prevalentemente da dipendenti (83,9%) e uomini (56,4%). Circa il 42% lavorava nell’industria della trasformazione, il 15,1% nell’edilizia , il 14,5% nel commercio e il 9,1% nei servizi alle imprese. Nonostante tutto, però, fino ad oggi «il mercato del lavoro in Italia ha tendenzialmente retto, o almeno non ha reagito alla crisi peggio di quello di altri Paesi».
Anche se 28,5% delle famiglie ha avuto difficoltà a coprire le spese mensili con il proprio reddito e ha dovuto attingere a fonti alternative. E il 41% è ricorso ai risparmi messi da parte nel passato. Totale: 7 famiglie su dieci hanno grattato il fondo del barile e per far quadrare il bilancio oltre un quarto dei lavoratori (25,4%) ha fatto lavoretti in nero, oppure ha pagato (in misura del 22%) con carte di credito che ne dilazionassero la spesa.
Sempre in quest’ottica del tirare la cinghia, si scopre che l’83% delle famiglie ha «modificato le proprie abitudini alimentari» e il 7% lo ha fatto in maniera drastica, con una impennata del ricorso agli hard discount. Da notare che l’indigenza registrata dal Censis anche lo scorso anno salvava comunque i consumi alimentari, considerati spesa primaria.
Questo problema va affiancato a quello fiscale: troppe tasse pagate da chi non può sottrarsi (i lavoratori dipendenti) e poche da tutti gli altri.