Alessandro Penati, la Repubblica 5/12/2009, 5 dicembre 2009
Dubai ha fatto tremare le Borse per un paio di giorni. Poi, tutti di nuovo a comperare, ritenendolo un fatto ininfluente
Dubai ha fatto tremare le Borse per un paio di giorni. Poi, tutti di nuovo a comperare, ritenendolo un fatto ininfluente. Invece, è un segnale che la crisi del debito non è risolta e può ancora riservare sorprese; che ristrutturazioni e default continueranno; e che gran parte del problema è stato solo rinviato, sotto forma di un accumulo di debito pubblico mai visto in tempo di pace. Cifre impressionanti: il Fondo Monetario stima che la crisi porterà il debito del G20 dal 75% del Pil al 120% nel 2014 (era 64% nel 2000). Ma una crisi di debito non si risolve con altro debito. Poco importa che sia pubblico o privato: bisogna smaltirlo nel tempo, aumentando il risparmio. E se il debito è pubblico, più tasse e meno spese. In ogni caso, i postumi della sbornia sono un prolungato periodo di bassa crescita, maggiore risparmio e pressione fiscale. Né si può sperare che bastino le economie emergenti, Cina in testa, a trainare l´espansione economica di un Occidente che ha accumulato la gran parte del debito: non si può risolvere infatti l´eccesso di capacità produttiva di auto in Europa vendendo fabbriche agli indiani; né spostare in Cina i centri commerciali americani in dissesto; né ridurre il debito pubblico greco vendendo l´Acropoli al fondo sovrano di Singapore. Questo scenario dovrebbe privilegiare le azioni di società capaci di generare stabilmente flussi di cassa. Sta succedendo l´opposto: i titoli più rischiosi e colpiti dalla crisi sono esplosi dai minimi (banche, +145%; costruzioni, +94%; materiali di base, +121%); mentre telefonici, farmaceutici e servizi di pubblica utilità non sono andati oltre +46%. Più delle prospettive, conta la voglia di profitti rapidi (e bonus a fine anno), puntando acriticamente su tutto quanto era caduto di più. Ma non è l´unica incongruenza. La corsa dei capitali verso i paesi emergenti produce risultati paradossali: in molti posti dell´Asia già si parla di bolla immobiliare, con la crescita a due cifre dei prezzi delle case; in Brasile i capitali affluiscono massicciamente, nonostante una Borsa così poco liquida che due soli titoli rappresentano un terzo della capitalizzazione del mercato. E continua la corsa al junk bond: il differenziale di rendimento delle obbligazioni con rating singola B, rispetto ai titoli di stato, si è chiuso di 10 punti percentuali negli Usa, e di 18 in Europa; riportandosi intorno al valore medio degli ultimi 20 anni. Per non parlare della corsa all´oro. Sintomi da fame di rendimenti. Creata dalle banche centrali che hanno azzerato i tassi, offerto liquidità senza limiti e acquistato titoli di stato per calmierarne i rendimenti, allo scopo di far tornare agli investitori l´appetito per il rischio. Il prezzo da pagare per limitare i costi sociali della crisi. Ma ora, insistono: la politica monetaria è appropriata; i tempi per un significativo rialzo dei tassi saranno lunghi perché ci vorranno anni per recuperare la capacità produttiva inutilizzata; non esistono segnali di inflazione o di bolle nei mercati. Un quadro che concilia un regime prolungato di tassi bassi con la montagna del debito pubblico. Un po´ come in Giappone, che da 10 anni ha il debito pubblico più alto del mondo, ma anche tassi a lunga sotto l´1,5%; possibile solo perché il costo della vita è diminuito costantemente nel decennio. Per i profitti, però, un vero incubo: anche contando dividendi e deflazione, la Borsa è sotto del 38% rispetto ai massimi di 20 anni fa. questo il dilemma attuale dei mercati: o ci aspettano anni "giapponesi", e allora stiamo sottostimando il rischio azioni e junk bond; oppure prima o poi arriva una crisi del debito pubblico. Qualche giorno fa, il Financial Times illustrava magistralmente il dilemma, citando il famoso economista Woody Allen: «Mai come oggi l´umanità è a un bivio. Una strada porta alla disperazione. L´altra all´estinzione. Speriamo di saper scegliere quella giusta».