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 2009  dicembre 04 Venerdì calendario

Dice che il vignaiolo è come un fabbro, un falegname. «Siamo artigiani che fanno il vino e speriamo che tutti ci dicano: questi fanno bene il loro lavoro»

Dice che il vignaiolo è come un fabbro, un falegname. «Siamo artigiani che fanno il vino e speriamo che tutti ci dicano: questi fanno bene il loro lavoro». Ampelio Bucci produce verdicchio. «Un vino fatto bene, con passione e cultura. Un vino buono, con una sua personalità. Ecco, solo la "personalità" del vino ci permetterà di continuare ad esistere e fare cose buone, senza essere sommersi da vini senz´anima che arrivano dall´Italia e da ogni parte del mondo». Ampelio è uno dei mille vignerons d´Europe che da venerdì si troveranno a Firenze per parlare del loro mestiere e raccontare a tutti che esiste ancora il vino buono, che non è "quello di una volta" ma non è nemmeno quello "industriale" che viaggia in cisterne e finisce dentro al tetrapak. questo vino a pagare più caro lo scotto della crisi. I prezzi delle uve sono crollati, in qualche caso anche del 50 per cento. E si deve correre ai ripari. In Toscana per dieci giorni si svolgeranno convegni, confronti, lezioni e degustazioni per discutere - su invito di Slow Food - di "vitivinicoltura sostenibile". I coltivatori - arriveranno dalla Francia e dalla Romania, dalla Germania e dalla Lituania - saranno ospitati nelle case dei piccoli produttori toscani. «Noi vignaioli - dice Ampelio Bucci - siamo un po´ gelosi l´uno dell´altro. Con il vicino di podere spesso non si parla, perché la concorrenza è forte. L´appuntamento "Vignaioli & Vignerons", promosso insieme con la Regione Toscana, ci permette invece di superare i piccoli e grandi confini. Io insegnerò a un coltivatore romeno come si costruisce un mercato serio e competitivo e lui magari mi racconterà come si combatte l´oidio, il fungo delle viti». Il primo convegno dei vignerons si è svolto a Montpellier due anni fa. Si cominciò allora a discutere di vino e cambiamenti climatici, di cantine e agricoltura sostenibile. Si affrontò anche il tema della globalizzazione del mercato e dei prezzi. Riusciremo - si chiesero i vignaioli - a reggere la concorrenza, con le nostre piccole botti contro le navi-cisterna? Le preoccupazioni di allora si sono purtroppo trasformate in certezze. I prezzi delle uve, nell´ultima vendemmia, sono crollati. Il frascati, secondo i dati della Coldiretti, è stato pagato 23 euro al quintale, 45% in meno rispetto al 2008. Il nebbiolo 180-200 euro al quintale, con un calo del 30-35%. Meno 30% per il chianti classico, meno 40% per l´Aglianico… Non è necessario essere profeti per prevedere, per i vigneti un futuro a rischio. già successo in altri pezzi del mondo agricolo. Il crollo del prezzo del grano ha portato una diminuzione del 30 per cento delle semine di quest´anno. Il crollo del prezzo del latte ha portato tante vacche al macello. A leggere il primo Manifesto dei Vignaioli in terra francese fu Costantino Charrère, presidente della federazione italiana vignaioli indipendenti, con terre in Valle d´Aosta. «Ci hanno chiamato - dice - "vignaioli eroici", perché continuiamo a produrre uva su terreni di montagna. E cerchiamo di farlo nel modo migliore. Si parla tanto di biodiversità, ma passare ai fatti non è semplice. Noi ci abbiamo provato. Abbiamo recuperato i vitigni del fumin, del majollet, del blanc de Morgeaux, della premetta… Da queste viti nascono vini che già sono ricercati da consumatori che si sentono nostri complici, perché rifiutano l´appiattimento del gusto. Certo, tirare avanti non è facile. Qualche numero può spiegare le nostre difficoltà. Per un ettaro di vigneto in montagna in un anno servono 1.200 ore di lavoro. In pianura, ad esempio in Puglia dove c´è la raccolta meccanizzata, bastano 300-400 ore. In Australia, dove tutto è meccanizzato, servono appena 25 ore. Nella nostra Val d´Aosta un chilo d´uva, a noi produttori, viene a costare 2,5 euro al chilogrammo. Per questo il consumatore paga una bottiglia fra i 5 ed i 10 euro. Solo il confezionamento si porta via 70-80 centesimi. Con la nostra produzione evitiamo che tanti territori siano abbandonati e creiamo occupazione anche in questi areali a rischio di abbandono. Poi facciamo una visita in un supermercato e scopriamo che ci sono bottiglie in vendita a 1,50 euro, soprattutto di vino che arriva da Australia, Argentina, Cina. Sappiamo che a Londra - è il mercato che detta i prezzi in Europa - il vino in navi-cisterna viene pagato 0,40 euro al litro. Questa invasione non si può fermare. L´unica strada è quella di allargare la schiera dei clienti pronti a spendere qualcosa in più, perché del fumin e della premetta non resti solo il ricordo e perché i rovi e i cespugli non conquistino le magre terre dei nostri vigneti». Il ritorno alla natura è la carta, si spera vincente, dei vignaioli. «Io non so - dice Ampelio Bucci, che produce 90 mila bottiglie di verdicchio biologico - se il mio vino sia più buono di altri. Certamente, dentro la bottiglia ci sono meno residui chimici. La nostra scelta di un´agricoltura naturale non è ideologica. Non siamo nemmeno una setta. Cerchiamo di fare un vino naturale con tecniche che non sono quelle dei nostri nonni ma sono state inventate venti o trent´anni fa. Per catturare i maschi della tignola, ad esempio, usiamo trappole che sembrano una carta moschicida. Sono impregnate di fermone femminile. Per eliminare l´oidio o mal bianco, che è un fungo pericoloso che prima veniva eliminato con potenti anticrittogamici, assieme allo zolfo si usa un altro fungo. Scegliere la qualità è impegnativo. Nel disciplinare del verdicchio si prevede una produzione di 140 quintali per ettaro e io ne produco solo 70. Basta questo per giustificare prezzi più elevati». Non sono soltanto la tignola e il mal bianco i nemici dei vignerons. «Fare vino è difficile. Ci vuole sapienza e anche fortuna: se piove troppo o nei momenti sbagliati, se grandina, tutto va a rotoli. Ma ci sono nuovi "agricoltori" che investono nel vino come se giocassero in borsa. Comprano vigneti, costruiscono cantine luccicanti, assumono pr che si danno da fare sulle riviste e sui giornali…». Fino a un anno fa il mercato del vino era un Bengodi. «In Toscana c´erano aziende che come primo prezzo, quello delle cantine, vendevano bottiglie a 26 euro. Ora i prezzi si sono fermati e c´è chi ha calato i pantaloni. Le bottiglie da venti euro ora si trovano a dieci. Io spero che questa crisi serva almeno a cacciare via quelli che investono nel vino come se le cantine fossero fabbriche di scarpe». Sono 700 mila le aziende vitivinicole italiane. «In questo numero - dice Domenico Bosco, responsabile vino della Coldiretti - ci sono anche i contadini che hanno una vigna per consumo personale. Le aziende imbottigliatrici sono 35 mila e circa i due terzi sono piccole o medie aziende, con produzioni inferiori ai 500 ettolitri. Ma il mercato viene deciso dalle grandi aziende, alcune delle quali non hanno vigneti ma mettono in bottiglia vini e mosti che arrivano da ogni parte del mondo».  già tempo di potature, nelle vigne delle Fattorie Vallona, sui colli bolognesi di Castello di Serravalle. «Le viti - dice Maurizio Vallona - vanno curate come fossero bimbi piccoli. Con le potature finiremo a marzo. Non so se noi vignaioli, io produco 1.500 ettolitri di pignoletto, chardonnay, sauvignon, riusciremo a resistere. In campagna servono amore e creatività, ma anche tecnica e mercato. Noi stiamo abbastanza bene perché abbiamo capito che fare un buon vino non basta, bisogna anche saperlo vendere. Ci siamo creati una clientela fedele perché, in tempi di vacche grasse, non abbiamo speculato. Ma per tanti colleghi vedo un futuro nero. Tre anni fa le nostre uve erano pagate 80 centesimi al chilo, quest´anno il prezzo è crollato. Se trovi un acquirente privato, porti a casa 40 centesimi. Se porti le uve alla cantina, sei pagato 30 centesimi. In collina si fanno 90 quintali per ettaro. Se vendi a 0,40 euro, per un ettaro incassi 3.600 euro. Questa cifra è esattamente la metà di ciò che spendi nel corso dell´anno, dalla potatura alla vendemmia. Per un anno puoi resistere, ma solo per un anno». Estirpare le viti è come portare le vacche al macello. Anche se il mercato riprende, le cisterne del latte saranno secche e le botti saranno vuote. CARLO PETRINI In questi giorni ho sentito la storia di un vignaiolo che mi fa pensare che il mondo del vino sia di nuovo giunto a un momento di svolta. Di nuovo, perché anche nell´86 chi faceva vino in Italia dovette scegliere che strada intraprendere per sollevarsi da quello tsunami che fu lo scandalo metanolo. Oggi certo non ci sono scandali così drammatici ma, vista la crisi in cui versa il settore, si può dire di essere giunti a un momento altrettanto epocale. Non dirò il nome del vignaiolo in questione, né dove opera. Ha 35 anni, una piccola azienda familiare che conduce insieme ai genitori anziani. Da dieci anni ha scommesso su un´ottima piccola produzione di una Doc di tutto rispetto, ma non una delle più pregiate. Fa 25.000 bottiglie all´anno con otto ettari di vigna, bottiglie ben giudicate dalla critica, forse le migliori della sua zona. Ne ha sempre vendute 8 mila negli Stati Uniti, una bella sicurezza, e sono partite anche quest´anno. L´unico problema è che visti i tempi di crisi, lui le spedisce, ma è già dal 2008 che non gliele pagano. Zero entrate su questo fronte. Come se non bastasse, in Italia quest´anno ha venduto il 50% in meno del solito e gli resta un terzo della produzione nelle vasche, ancora da imbottigliare. Ha già perso due terzi dell´introito cui era abituato e ora s´interroga su come rientrare almeno delle spese. un contadino come suo padre e sua madre, l´azienda è piccola e fragile, e come facevano i suoi genitori decide di provare la via della vendita del vino sfuso. Va sulla piazza locale e gli offrono 50 centesimi al litro. Per un vino Doc! A quel prezzo significa una rendita di 3 mila euro all´ettaro, vale a dire 24 mila generati da tutta l´azienda, una miseria visti gli investimenti, il costo delle attrezzature, il tanto lavoro speso con passione. Ma la beffa deve ancora arrivare: l´acetificio locale gli offre 44 centesimi per trasformare il suo sfuso in aceto, e così lui è tentato di sacrificarlo, saggiamente, per non ingolfare il mercato e sperare in qualcosa di più nella prossima annata. L´aceto paga soltanto sei centesimi in meno del vino sfuso, e il paradosso è che le uve da cui proviene quel vino le compravano a 80 centesimi prima di essere trasformate: non conviene neanche più farlo, il vino. Il ragazzo è disperato e come lui lo sono tantissimi produttori italiani, la stragrande maggioranza che non fa vini di pregio assoluto, come il Barolo o il Brunello, denominazioni o grandi firme che in virtù della loro eccellenza sentono un po´ meno la crisi. Ma il vino di questo ragazzo è ottimo come lo sono le tante Doc minori e i vini "quotidiani", quelli da meno di dieci euro la bottiglia: la spina dorsale della nostra produzione nazionale. Siamo a un momento di svolta: troppa produzione sull´onda dei soldi facili che si potevano fare negli anni ´90, per contro poco mercato, e sono anche sparite le sovvenzioni che mitigavano i danni della sovrapproduzione. Alla fine sta succedendo quello che è successo in tutti gli altri settori dell´agricoltura, per il cibo: si è rotto il cordone ombelicale tra uva e vino, tra materia prima e prodotto trasformato. I primi a scomparire rischiano di essere i piccoli produttori, i vignerons, i "produttori verticali", quei contadini veri che gestiscono tutto il processo, dalla vigna alla bottiglia. Una forma d´artigianato che ha contribuito in maniera determinante a rendere grande il vino italiano; personaggi fondamentali che vanno salvati a tutti i costi, perché sono gli unici che hanno un rapporto vero con il territorio, che sanno prenderne le misure in base ai suoi bisogni, che possono conoscerne i limiti e rispettarli. Altrimenti l´unica alternativa è che il vino finiscano per farlo (e guadagnarci sulla quantità) soltanto i commercianti. In una parola sarà il trionfo del vino industriale: magari anche non cattivo, ma senza identità, senza umanità e cultura della vigna. Ci s´interroga su come intervenire, lo fanno gli stessi vignerons che dimostrano voglia di unità e spirito propositivo riunendosi a Montecatini per discuterne. Ciò che pare evidente è che per scongiurare un disastro sia necessario ripartire dal locale, dal territorio, ovvero dal valore che loro sanno esprimere meglio. Ma locale significa anche puntare sui mercati locali, e convincere i comunicatori del vino - che dovranno farsi un piccolo esame di coscienza - che non ci sono soltanto le grandi eccellenze: c´è da fare conoscere anche il 95% del vino italiano che è vino quotidiano, spesso molto buono. Allo sforzo di comunicazione degli operatori, i vignerons dovranno però poter rispondere rilanciando sulle loro qualità migliori, come per esempio la sostenibilità. Una parola che oggi è tanto di moda nel mondo del vino, ma come tutte le mode (vedi l´utilizzo delle barrique) rischia di essere passeggera, e non lasciare nulla per un futuro con basi solide. Sostenibilità che va tenuta in vigna e in cantina, attraverso stili produttivi con minor impatto ambientale e rispettosi della fertilità del suolo, che è la risorsa primaria per il vino (se si conta che il 40% di pesticidi, funghicidi ed erbicidi utilizzati dall´agricoltura europea finisce nella viticoltura, il settore dovrà veramente ridiscutere il suo modus operandi se non vuole ritrovarsi un giorno completamente senza terroir). Ma sostenibilità che dovrà essere anche economica, per tutto il settore, dove non si straproduce e si fa gruppo per ripartire dal locale, da un´identità molto radicata nel territorio. I vignerons hanno tutte le carte in regola per dare inizio a una nuova rivoluzione produttiva e di mercato, proprio come fecero nell´86 risollevando le sorti del nostro vino: aiutiamoli e difendiamoli, diventiamo i loro co-produttori imparando a conoscerli e ad apprezzare i loro vini anche per le storie umane che si portano dietro.