Walter Barberis, La stampa 3/12/2009, 3 dicembre 2009
Tanti pezzi non fanno l’Italia- Stato e mercato; giustizia e garanzie; globale e locale; faziosità e condivisione: sono tutte parole che vanno a coppie come altrettanti problemi del nostro mondo contemporaneo
Tanti pezzi non fanno l’Italia- Stato e mercato; giustizia e garanzie; globale e locale; faziosità e condivisione: sono tutte parole che vanno a coppie come altrettanti problemi del nostro mondo contemporaneo. Eppure, a ben vedere, questo linguaggio è il frutto più che maturo di una storia plurisecolare. Per darne ragione, potremmo cominciare col dire che agli occhi degli stranieri, prima ancora che Italia, noi siamo di volta in volta Firenze, Roma, Venezia, Napoli; oppure Mantova, Ferrara, Urbino; coste sarde o riviere dei fiori. Siamo cioè dei luoghi, dei pezzi separati che, messi insieme, costituiscono un puzzle meraviglioso. Dovremmo persino esserne orgogliosi: perché da quando gli stranieri, fra il secolo XVII e il XIX, hanno cominciato a fare il Grand Tour, cioè la visita dei luoghi principali d’Italia, è nato il tourisme. Fenomeno non da poco. Il fatto è che ciascuno di questi pezzi si è caratterizzato per la sua forte identità; e che la storia italiana è anche la storia della difficoltà di far stare insieme i vari pezzi. C’è stato un momento, secoli fa, in cui non parve necessario che i differenti luoghi dovessero avere una relazione di reciprocità: Firenze stava benissimo per conto suo, potente e ricca; così come Genova, Venezia ecc. La civiltà del Rinascimento era tutta un fiorire di quei tanti centri, soprattutto di quelle mille città, che già avevano segnato lo splendore dell’età comunale italiana. I problemi cominciarono quando altrove, in Francia, in Inghilterra, in Spagna, si costituirono grandi apparati statali, regolati centralmente in una sola città capitale, dominante su ampi territori. Quei nuovi Stati avevano forze demografiche, risorse economiche, potenza militare e apparati giuridici sufficienti per scalzare dalle loro vecchie posizioni di dominio le illustri città italiane; furono quelle compagini statali che conquistarono una ad una le grandi rotte commerciali europee, mediterranee e transoceaniche. Quelle divennero le potenze che dominarono prima l’Europa e poi il mondo intero. L’Italia rimase il luogo dei ricordi di una passata grandezza già all’inizio del Cinquecento; e rimase luogo di rivalità, di campanilismi, di municipalismi, di fazioni, di contrade, di famiglie. Con una radicata cultura dell’interesse particolare, di gruppo, a scapito di un visione più ampia, di un interesse generale. La cosiddetta reductio ad unum, lo Stato in altre parole, in cui si contemperano le ragioni pubbliche e quelle private, non divenne esperienza italiana: né allora, né dopo. Con l’eccezione di alcune esperienze locali, della Repubblica di Venezia prima e del ducato di Savoia poi, quasi in nessun altro luogo si affermò una cultura dello Stato, un patriottismo che legasse le iniziative dei singoli alle fortune di una comunità nazionale. Non c’è dunque da stupirsi se quella Italia, divisa in tanti frammenti irriducibili a qualche forma di unità, divenne ben presto preda ambita di tanti conquistatori, territorio occupato da eserciti stranieri che se ne stettero in varie parti dello stivale fino a metà dell’Ottocento. Fu allora, che una serie di fortunatissime coincidenze consegnò i pezzi sparsi del suolo italiano, adeguatamente fertilizzato dalle idee di indipendenza dei Cattaneo, dei Mazzini, dei Garibaldi, al solo Stato che potesse farsene carico: il Piemonte di Vittorio Emanuele II e di Cavour. L’Unità non fu senza recriminazioni, senza resistenze e anche insorgenze. Va detto, tuttavia, che la ricucitura dei pezzi, che ancora oggi sembra talvolta precaria e sfilacciata, permise all’Italia di risollevare la testa e alla fine di gareggiare con le altre potenze europee. Non saremmo certo la settima potenza industriale del mondo se non avessimo faticosamente ricomposto un mercato del lavoro su scala nazionale, se non avessimo incoraggiato l’incontro degli uomini del Nord e del Sud all’insegna dell’industrializzazione e della modernizzazione del Paese, se non avessimo costruito strade, ponti e ferrovie per collegare i quattro angoli della penisola e questa con l’Europa, se non avessimo incoraggiato una scolarità di massa con programmi unitari, se non avessimo dettato i canoni di una sanità pubblica. Ogni tanto bisognerebbe ricordarsene. Viceversa, gli italiani paiono ancora incapaci di condividere una delle poche cose che fa forti le comunità: cioè la loro storia. E nonostante i grandi passi in avanti compiuti grazie ai processi di integrazione nazionale, spesso recriminano su episodi del passato che li hanno visti ferocemente e mortalmente divisi, incapaci di voltarsi indietro allo scopo di capire e dunque di darsi una prospettiva, di progettare un futuro. Diceva Foscolo, salendo sulla cattedra di eloquenza, a Pavia nel 1809, «O Italiani, vi esorto alle storie poiché niun popolo più di voi può mostrare né più calamità da compiangere né più errori da evitare». Guardando indietro con occhio critico, diceva, «potrete alfine conoscervi fra di voi ed assumere il coraggio della concordia». Parole su cui varrebbe la pena di meditare anche oggi.