Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  novembre 24 Martedì calendario

EMMA DANTE: «CARMEN FA ANCORA PAURA»


Lei è vestita da suora! Ed è sempre seguita da un carro funebre! Tenetevi forte, non c’è la Spagna! Niente nacchere e mantiglie e toreri e ola! Ma no, ma dai, non è possibile. Siamo pazzi? Questa è la Scala, la Scala, signora mia! Nessun evento scatena lo scemo operistico che dorme in ogni italiano come la prima della Scala, la famosa maledizione del 7 dicembre. Se poi si apre con un titolo popolare (benché completamente frainteso) come Carmen, peggio ancora. Peggio del peggio se lo mette in scena una giovane regista molto siciliana che nella sua Palermo fa spettacoli che definire forti è un eufemismo, che non ha mai fatto Carmen, anzi che non ha mai fatto l’opera e addirittura «alla Scala proprio non ci avevo mai messo piede, nemmeno come spettatrice». In una parola: Emma Dante. Poi entri clandestinamente in sala, vedi che un’ora abbondante di prova serve a montare dieci minuti di spettacolo (la Séguedille), e alza il braccio, girati in un certo modo, riproviamo, rifallo, non così, sì così, ancora, e capisci che questa Carmen andrà come andrà, ma la signora A) sa quel che vuole; B) sa anche come ottenerlo.

Ha paura?
«No, al momento ho solo la febbre, 38 e rotti. E poi paura, perché? Ho la fortuna di aver incontrato una persona eccezionale. Si chiama Daniel Barenboim e che fosse un grande artista lo sapevo. Che fosse un uomo grande l’ho scoperto qui».

«Carmen fa paura», scrive lei. Ancora? E perché?
«Ancora e sempre. Perché? Perché la sua forza dirompente è la libertà spinta fino al suicidio. E la libertà fa paura, la libertà è un peso. Non scegliere è più comodo e facile che dover scegliere».

Dunque, lei è d’accordo con chi dice che Carmen, come Don Giovanni, in realtà si suicida, cioè sceglie consapevolmente la morte per salvaguardare la sua libertà.
«Sì, certo. E infatti nella mia regia è Carmen a offrire a José la navaja. E gli dice: o mi uccidi o mi fai passare. Ma il coltello che la ucciderà gielo mette in mano lei».

Però Carmen, almeno quella di Bizet, non quella dei loggioni, è anche un’opéra-comique, che non vuol dire comica, ma indica uno stile, leggero, ironico. Il «quelque chose de gai» di cui parlava Bizet.
«Senta, io faccio degli spettacoli forti, molto forti, sia come temi che come linguaggio. Ma c’è sempre qualcosa di leggero, di talmente grottesco che sfiora il ridicolo. Che so? La Stellina nelle Pulle vestita da sposa fa ridere. Però continua a dire cose importanti. Del resto, pensi al trans picchiato, derubato e poi ucciso: era una figura grottesca eppure molto seria, e infatti si è vista la fine che ha fatto. In Carmen, il leggero è una barzelletta detta a un funerale. Pensi ai due contrabbandieri, sono il gatto e la volpe di Pinocchio, divertenti ma un po’ sinistri».

E il folklore spagnolo modello «Welcome to Siviglia»?
«Non c’è. C’è, semplicemente, un’altra verità. Io non voglio fare quello che non si è mai fatto, non voglio provocare, rivoluzionare, non me ne frega niente. Voglio solo guardare con altri occhi. Come diceva Pasolini: se il pubblico si aspetta qualcosa da uno spettacolo, quel qualcosa non è nuovo. Che poi può essere qualcosa anche di antichissimo. Tutto sta nel ritrovarlo dentro di noi. Aveva ragione Nietzsche: il capolavoro di Carmen è che "nell’udirla si diventa noi stessi un capolavoro". Per questo vorrei che gli spettatori arrivassero liberi, senza preconcetti. E, visto che dietro questa Carmen c’è un anno di lavoro, quando qualche coglione banalizza tutto, beh, qui davvero un po’ mi scoccio».

Appunto: il carro funebre c’è o no?
«Ma è una citazione, mica è sempre lì. E poi se ne è talmente parlato che mi è venuta voglia di toglierlo. Pensi che scherzo. Tutti aspettano il carro, e il carro non c’è più».

E Micaela è sempre seguita da parroco e chierichetti?
«Poveretta, aspetta sempre di sposarsi».

E Carmen da cinque zingarelle?
«La cosa più tenera dello spettacolo è lei che torna bambina. Ritrova l’ingenuità, la tenerezza, la fragilità. Insomma l’infanzia, quella che le zingarelle non hanno mai».

Dopo l’inaugurazione della Scala, a Palermo smetteranno di farle la guerra?
«Magari me la facessero».

Perché?
«Perché la guerra si combatte, l’indifferenza no. E a Palermo semplicemente mi ignorano. Però so già che nulla cambierà».

Il 7 sera come sarà vestita?
«Con un abito di una stilista norvegese, Leilha Hafzi. Colori naturali, verde, azzurro. E un artiglio disegnato sul cuore».