Gabriele Beccaria, La stampa 3/12/2009, 3 dicembre 2009
”L’era degli sprechi è finita per sempre I leader lo sanno”- Per i climatologi il problema è «complesso», per le opinioni pubbliche è un incomprensibile «pasticcio»
”L’era degli sprechi è finita per sempre I leader lo sanno”- Per i climatologi il problema è «complesso», per le opinioni pubbliche è un incomprensibile «pasticcio». E poi ci sono studiosi che disegnano soluzioni, come Barbara Buchner, «ragazza prodigio» impegnata all’Agenzia internazionale dell’energia (base a Parigi): analista del clima, è uno dei cervelli che cercheranno di sbrogliare la matassa del summit di Copenhagen. Dottoressa Buchner, i pessimisti prevalgono e citano il flop del Protocollo di Kyoto: doveva tagliare le emissioni, ma non è stato così. «Il Protocollo è stato un primo passo. E’ chiaro che non è bastato, ma ha evidenziato i problemi sul tappeto e senza quel documento non saremmo dove siamo». Cioè dove? «Alla vigilia di nuovi negoziati e il Protocollo ha generato una vasta consapevolezza in ogni Paese. Si è capito che si rischia uno scenario catastrofico, quello dell’aumento delle temperature vicino ai 6°: le conseguenze sarebbero irreparabili». Come si convincono cinesi e indiani a inquinare meno? Per loro «più emissioni» sono sinonimo di «più sviluppo». «L’obiettivo, ora, è -50% di gas serra entro il 2050 e a Copenhagen si dovrà fare un ulteriore passo: un accordo politico di lungo termine tra tutti i Paesi e vedo segnali positivi proprio da Cina e India. Stanno dimostrando di avere capito che anche loro devono contribuire». Come si traducono in pratica le buone intenzioni? «Aiutando a fare gli investimenti giusti nelle nuove energie e ideando una serie di incentivi. D’altra parte, Cina e India hanno iniziato a guadagnare anche con il ”carbon trading”, il mercato delle emissioni». Il presidente Barack Obama punta sulla «green economy», l’economia basata sulle fonti pulite, ma c’è di mezzo la crisi finanziaria globale. «Proprio la crisi può rivelarsi un’opportunità: se i consumi energetici sono scesi, è anche evidente che in questo settore saranno presto necessari grandi investimenti in infrastrutture e tecnologie. Queste iniziative, dal solare all’eolico, rappresentano la via per combattere il cambiamento climatico, razionalizzando i consumi e riducendo le emissioni, e si riveleranno tanto più efficaci in quelle zone, come l’Europa, dove si fissano prezzi specifici sulle emissioni di CO2. Così le industrie e la gente si stanno rendendo conto che inquinare meno significa risparmiare». In realtà sono poche le industrie «verdi» e anche la gente non è così virtuosa: che strategia si deve ideare? «Con obiettivi politici e vincoli normativi: per esempio con quelli dell’Ue di non superare le 450 parti per milione di polveri nell’atmosfera e non oltrepassare i due gradi di aumento delle temperature entro fine secolo. E’ uno scenario che, secondo i nostri calcoli, richiede 10 trilioni di dollari di investimenti nel solo settore energetico ed è chiaro che non basteranno i fondi dei governi. Ci vorrà l’intervento dei privati e a Copehagen si parlerà anche di questa collaborazione». Questo è il futuro, ma all’ultimo G8 l’Agenzia internazionale dell’energia ha presentato una serie di «raccomandazioni» che si possono applicare, giusto? «Sì e sono legate alle tecnologie già esistenti per garantire una migliore efficienza energetica: due esempi sono l’illuminazione e gli elettrodomestici, che permettono risparmi consistenti. Ma è fondamentale migliorare l’informazione». E chi insiste a sprecare? «A chi persegue egoisticamente il ”self-interest” si dovrà far pagare il prezzo degli sprechi e delle emissioni eccessive, ma ci vuole anche l’educazione». Intanto è scoppiato il «climategate»: è vero che il «panel» dll’Onu sul clima è troppo catastrofista e censura i dissenzienti? «Non c’è dubbio che il clima sia una realtà complessa, ma l’International Panel on Climate Change raccoglie i dati di migliaia di ricercatori ed elabora tante possibili conclusioni. Che ci sia una censura mi sembra impossibile e sarebbe terribile se si usasse questa ipotesi per giustificare l’inazione di fronte alle emergenze climatiche».