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 2009  dicembre 03 Giovedì calendario

Clima, l’Ue sfida gli Usa: offrano di più- La resa dei conti di Copenhagen comincia ancora prima che si alzi il sipario sulla Conferenza sul Clima, ed è uno scontro di numeri, senza esclusione di colpi

Clima, l’Ue sfida gli Usa: offrano di più- La resa dei conti di Copenhagen comincia ancora prima che si alzi il sipario sulla Conferenza sul Clima, ed è uno scontro di numeri, senza esclusione di colpi. Lo ingaggia l’Europa che, guidata dall’ambizione di essere il leader planetario nella lotta all’effetto serra, fa dichiarazioni concilianti e le accompagna con tabelle al vetriolo. Ieri, ne ha intavolata una che ridimensiona ufficialmente le promesse americane di taglio alle emissioni. Lo sforzo di Obama, fa capire Bruxelles, è una montagna se misurato sulla base del 2005 (-17%), ma diventa un topolino (-3%) una volta riportato al parametro comunitario, ovvero il 1990. Per l’Ue, che si vota a una riduzione di almeno il 20%, è chiaro che Washington deve fare parecchio di più. A vedere le ultime notizie, non è la sola. Ieri l’India ha annunciato di ritenere possibile di poter ridurre la propria intensità carbonica, ovvero la quota di gas serra emessi per produrre un’unità di Pil, del 24% entro il 2020 rispetto ai livelli del 2005. Bruxelles ha già detto che la promessa dei cinesi, che si sono impegnati a fare il doppio di Delhi sempre in termini di intensità carbonica, equivale a «un sacchetto di bruscolini». Soddisfazione zero, insomma. E la sensazione è peggiorata da un’altro grafico letale fatto circolare a palazzo Berlaymont: quello secondo cui, a politiche invariate, le emissioni di Co2 dei Paesi in via di sviluppo saranno nel 2020 più del doppio delle attuali e, comunque, superiori a quanto prodotto nelle economie avanzate. Gli obiettivi di Bruxelles sono precisi. La conferenza della sirenetta deve stabilire che i gas serra tocchino il loro massimo fra dieci anni e riaffermare con forza la volontà di arrivare ad una riduzione del 50% nel 2020 sul 1990. Difficile. Ieri stesso le fonti comunitarie riferivano che Cina, India, Brasile e Sudafrica si oppongono con un documento comune a entrambi gli obiettivi. Allo stesso modo, sono contrari a fissare un limite all’aumento del riscaldamento globale a un massimo di 2 gradi rispetto ai livelli pre-industriali. Vuol dire che un accordo che piaccia ai bersaglieri dell’ambiente è lontano, se non lontanissimo. La Commissione ammette che è «improbabile raggiungere a Copenhagen un accordo pieno su un trattato vincolante». Si deve pertanto cominciare a lavorare su quattro elementi: trovare una visione comune sulla soglia dei 2 gradi; indicare impegni di riduzione delle emissioni ambiziosi e compatibili; definire un pacchetto finanziario che comprenda un’intesa per una partenza rapida; ribadire l’esigenza di un patto legale vincolante da finalizzare a metà 2010 nella conferenza già in programma a Bonn. Tutto questo, si fa notare, considerando «che un rinnovo del Protocollo di Kyoto non è la risposta», se non altro perché «l’America non lo firmerà». Un altro segnale è arrivato dall’Australia: il senato ha respinto per la seconda volta il piano di commercio delle emissioni del governo laburista. Il premier Kevin Rudd va a Copenhagen a mani vuote e rischia le elezioni anticipate. L’Italia non ha altrettanta fretta. Il direttore generale del ministero dell’Ambiente, Corrado Clini, ha affermato ieri che «il limite dei 2 gradi di aumento della temperatura media globale in relazione alla Co2, guardando semplicemente alla produzione e ai modelli energetici, è un obiettivo già oggi non realistico». L’alto funzionario ha anche espresso la preferenza che si possa lavorare per 12 mesi per provare a trovare un’intesa in dicembre a Città del Messico. Il Wwf, al contrario, vorrebbe vedere l’Italia e il resto del mondo più motivati. Il Pianeta, ha detto ieri l’organizzazione per la difesa dell’ambiente, ha già oltrepassato del 40% i limiti di Co2 rispetto al ”90, l’anno di riferimento del Protocollo di Kyoto. Non c’é tempo da perdere, avverte la responsabile Clima Maria Grazia Midulla: «Siamo nella fase negoziale più delicata e l’unica cosa che può far cambiare le carte è l’opinione pubblica».