Pierangelo Sapegno, La stampa 3/12/2009, 3 dicembre 2009
La piccola cinese morta nel casolare del lavoro nero- Anni Ye, così piccola e così innocente, è una bambina di 11 anni che è morta per «esalazione da solvente», in un laboratorio diroccato dove tre cinesi lavoravano forse assieme a lei le tomaie per l’industria delle scarpe, fra le macchine da cucire arrugginite e dei materassi accatastati vicino a una pressa appena rischiarata da una luce misera e stenta che pende ancora adesso dal soffitto
La piccola cinese morta nel casolare del lavoro nero- Anni Ye, così piccola e così innocente, è una bambina di 11 anni che è morta per «esalazione da solvente», in un laboratorio diroccato dove tre cinesi lavoravano forse assieme a lei le tomaie per l’industria delle scarpe, fra le macchine da cucire arrugginite e dei materassi accatastati vicino a una pressa appena rischiarata da una luce misera e stenta che pende ancora adesso dal soffitto. Posti come questo, sperso nella campagna, a due passi dalla strada provinciale 485 che scende verso Civitanova, ce ne sono un mucchio, tutt’attorno alle colline coltivate a granoturco, veri e propri ricettacoli di lavoro nero e sfruttamento selvaggio di cinesi, pachistani e indiani. come se l’Italia mettesse insieme le due facce della nostra realtà: la dolcezza di quei dossi, uno dietro l’altro, pettinati così mirabilmente dall’uomo, e l’avvilimento di una miseria cupa, dickensiana, che ci convive accanto. Anni era la speranza di sua mamma, «perché era la più brava a scuola. Le piaceva studiare e sognava di andare all’università». Sua mamma ha 33 anni, si chiama Jiang Lifen, ma qui da noi preferisce farsi chiamare Giulia. una donna disperata e dice che non sapeva che sua figlia fosse in quel posto a rischiare di morire: «Mi sono separata da mio marito e fra di noi non ci rivolgiamo più la parola». Ha altri due figli, che vivono in Cina. Ma Anni era il suo gioiello, «era la più intelligente». Adesso il suo corpo è sfigurato. Una bruciatura da solvente sul viso, e una striscia lungo il corpo sulla parte destra. Si potrebbe presumere che sia crollata su un macchinario, ma il medico legale Antonio Tombolini rifiuta qualsiasi commento. Certo è che quando è morta devono averla svestita e poi cercato di lavarla, pensando così di darle sollievo o spegnere le bruciature. Quando arriva in ospedale ha i capelli bagnati. Lì, nel laboratorio, c’erano tre operai adulti, due uomini e una donna. Nessuno di loro è un clandestino. Lei è la nuova convivente del padre di Anni, Xiaoyn Ye, di 36 anni, che da noi si fa chiamare Angelo. La donna è in Italia da un po’ di tempo, ma non conosce una parola della nostra lingua. Chiama la mamma, Jiang, che vive a Monte Urano, e le dice che Anni sta male. Urlano, strepitano. Forse chiama anche il padre, che fa l’operaio regolare in una fabbrica lì vicino. Fino a qualche tempo fa era un piccolo imprenditore, poi le cose sono andate male. Lui oggi ha ricevuto un avviso: omicidio colposo per omissione di vigilanza. Quando la sua convivente chiede aiuto al telefono, Anni dev’essere già morta. Lei dice che s’è sentita male in bagno, che è successo tutto lì, ma in bagno l’impianto elettrico funziona e non c’è niente che non sia a posto o che faccia pensare a un possibile incidente. Esce nella notte, il piccolo corpo portato in braccio e avvolto in una coperta. Forse sta andando a seppellirla, o forse sta cercando davvero aiuto, come racconta ai carabinieri. Però, mentre sta raggiungendo la provinciale, arriva l’ambulanza del 118. L’ha chiamata Jiang, la madre disperata. Lei consegna il corpo inerme e sfigurato della bambina, poi scappa via nella notte. Gli uomini del 118 non si accorgono dove sta andando. Diranno ai carabinieri che è fuggita nei campi. Invece, è corsa di nuovo nel laboratorio. Il casolare sta in fondo a una stradina di cipressi radi, attorno a un cortile malmesso e a degli orti sparsi in disordine vicino a dei campi coltivati. Non ci sono infissi, le quinte di mattoncini chiari sono come scolorite nell’abbandono. Ci sono reti alle finestre e c’è una scala in muratura che sale al piano di sopra. Sotto, c’è un negozio di giochi artificiali. Davanti, c’è una spranga. Dentro dei pacchi. Non è di proprietà dei cinesi: loro lavoravano in nero per qualcuno che non si sa ancora chi sia. La casa più vicina sta a trecento metri, e dev’essere quella di Nicola Ambruosi, che adesso non c’è, in questa sera di luna piena, ma che stamattina ha raccontato al collega del «Messaggero» Gianluca Ginella che molte volte aveva visto Anni prendere il pullman lì davanti quando tornava da scuola. Anni era iscritta alla quinta elementare, a San Claudio di Corridonia, tre chilometri da questo posto. Finiva di studiare e veniva qui dove fanno le tomaie, come nella Londra dell’Ottocento. Qui, nel campo, dice Ambruosi che «i cinesi mettevano delle piantine per coltivare pan di zucchero». Nel cortile, c’è un piccolo pozzo molto decadente. Sulla scala delle scarpe abbandonate, piccole e consunte, come un segno di vita sconfitta. A fianco, c’è un pollaio. Sul retro c’è una porticina. E, finalmente, ecco il luogo dell’orrore. Macchine da cucire di color verde sporco, un laboratorio dismesso, con dei materassi accatastati malamente, delle reti, un quadro di comando e una pressa. Tutto è ricoperto di polvere, intriso da uno strano odore, come di bruciato. La macchina da cucire più vicina alla porta sembra abbandonata. Anche i macchinari devono essere staccati adesso. Ci sono delle bustine con scritte in cinese. Un ripostiglio, ecco cosa sembra. L’inchiesta adesso dovrà chiarire come è morta Anni, la bambina che sognava di fare l’università in Italia. Se qui dentro ci lavorava, come è presumibile, o se qui dentro ci veniva a passare le lunghe ore della sera e della notte dopo aver studiato a scuola. Oggi l’autopsia comincerà a togliere i primi dubbi. Tutti gli altri stanno davanti a questo casolare sepolto nella sua desolazione.