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 2009  dicembre 02 Mercoledì calendario

Gozzano, tra evasione e rifugio la prima rivoluzione del Novecento- Con i crepuscolari esplode un’ambigua e scettica malinconia  il 2 settembre 1908

Gozzano, tra evasione e rifugio la prima rivoluzione del Novecento- Con i crepuscolari esplode un’ambigua e scettica malinconia  il 2 settembre 1908. Guido Gozzano, in un giorno felice della sua breve vita, scrive ad Amalia Guglielminetti: «Im­maginatevi che in una cassetta ho cir­ca trecento crisalidi di tutte specie da bruchi allevati con infinita pazienza per settimane e settimane; ora sono tutti appesi al coperchio graticolato e hanno preso la forma strana di crosta­cei stilizzati per il monile d’una signo­ra. Fra pochi giorni saranno farfalle». Passano due settimane. Guido apre la cassetta e descrive all’amica il prodi­gio a cui assiste: «Ho chiuso la fine­stra... ed è stato nella mia grande ca­mera chiara, un frusciare turbinoso di prigioniere...». Dopo qualche anno, Gozzano nel frammento di un poema ( Epistole en­tomologiche , destinato a rimanere ine­dito) replicherà il gioco. Il poeta si rap­presenta chiuso in una stanza: spia la trasformazione delle crisalidi. Prima che le farfalle volino via, le crisalidi so­pite pendono dal soffitto, dagli scaffa­li di una libreria, e popolano la stanza di presenze prossime a essere defun­te, di strane apparenze che sembrano già appartenere solo al passato. co­me se il poeta si trovasse davanti a un regno intermedio tra la vita e la morte. La stanza diventa allora per lui la «reg­gia del non essere più, del non essere ancora». Vita e morte si toccano e la­sciano Gozzano malinconico e affasci­nato. Questa immagine di smarrimento rappresenta bene il clima in cui nasce la letteratura del nostro primo Nove­cento. vero, esiste un Novecento del­la critica, vivo nell’ansia di program­mare, teorizzare, ricostruire; ma c’è an­che un Novecento della crisi che svela, dietro a quella forza appariscente, una sensazione di vuoto esistenziale, da cui nascono esami introspettivi dolo­rosi. Verrà l’approdo di Luigi Pirandel­lo a un sentimento nichilistico di soli­tudine. C’era già stata (e ci sarà) l’esa­sperata analisi psicologica di Italo Sve­vo, ma intanto prende spazio, nei pri­mi anni del secolo, l’ambigua e scetti­ca malinconia dei crepuscolari, di cui è testimonianza appunto la poesia di Gozzano, autore di due raccolte di ver­si: La via del rifugio del 1907 e I collo­qui del 1911. Nella scrittura del «bel Guido» ricor­re una coppia verbale: lo «spazio» e il «tempo». La sua poesia parte da uno «sgomento», da un’esigenza di rifugio dall’inquietante incombere di queste due parole. Il «cuore» che batte nei versi «teme gli orizzonti troppo va­sti », ama la protezione dei confini li­mitati e familiari. Ed ecco Torino, la città nativa, che non è per il poeta la metropoli industriale che si sta svilup­pando, ma la città che ispira ancora una cordiale e protettiva fiducia: «Un po’ vecchiotta, provinciale, fresca / tut­tavia d’un tal garbo parigino / in te ri­trovo me stesso bambino, / ritrovo la mia grazia fanciullesca / e mi sei cara come la fantesca / che m’ha veduto na­scere, o Torino!». Ecco le Alpi senza l’immensità di panorami, ma – al con­trario – intime e riposanti, rivestite di boschi. E infine il Canavese, la terra dell’infanzia e dei rifugi estivi: quel «Canavese privo di fulgidi passati, ma verde di riposi ristoratori, dove l’ani­ma si adagia come una buona borghe­se » . Un senso di benessere borghese, temperato e calmo, si può facilmente isolare nella poesia gozzaniana. Ne è l’immagine simbolica la «villa», con (all’esterno) il frutteto e il giardino, che sembrano polemicamente oppor­si al «parco» dei poemi di d’Annunzio e con (all’interno) il «salotto» pieno di piccole cose domestiche che segnano uno spazio quieto e un po’ angusto: «Loreto impagliato ed il busto di Alfie­ri, di Napoleone / i fiori in cornice (le buone cose di pessimo gusto) / il ca­minetto un po’ tetro, le scatole senza confetti / i frutti di marmo protetti dalle campane di vetro». Insomma l’immagine di uno spazio raccolto, col­mo di pace e silenzio. Un «buon silen­zio », reso più rassicurante da suoni fa­miliari: il tonfo di un frutto che cade, il tic-tac d’un orologio, il ritmo dell’ac­ciottolio in cucina, il rumore lontano di una trebbiatrice. Una pace resa an­cora più confidenziale dagli odori fa­miliari di «basilico, d’aglio e di cedri­na », dal buon «aroma» di caffè. Men­tre sopra a tutto si apre un cielo fami­liare: con una luna tranquilla, priva di inquietanti qualità astrali: «la luna so­pra il campanile antico» che «pareva un punto sopra una I gigante». Ma a questo desiderio di rifugio si oppone nella poesia di Gozzano un bi­sogno di evasione, un’ansia di orizzon­ti lontani, una nostalgia esotica. Acca­de nell’esperienza dello spazio e in quella del tempo. Al senso di un tem­po che trascorre e dissolve le certezze dell’uomo («Tempo che i sogni umani / volgi sulla tua strada... / o tu che tut­te fai vane le nostre tempre: / e vano dire sempre / e vano dire mai»), si op­pone l’urgenza di un riposo nella me­moria, di una ricerca del tempo perdu­to. Nasce di qui il gusto della «stam­pa » antica, che è appunto il modo di tradurre il desiderio di fissare il passa­to: e di stampe è arredata la poesia di Gozzano, come dimostrano in modo esemplare Torino , certi scorci del­l’ Amica di nonna Speranza e della Si­gnorina Felicita. Ancora una volta dunque ritorna una condizione di perplessa inquietu­dine, di sofferta instabilità, di oscilla­zione continua fra poli opposti. La poe­sia di Gozzano sta nel contrappunto di motivi contrastanti di cui ogni singola unità non conta, ma conta il totale va­lore di tali motivi. L’immagine com­plessa del suo mondo interiore è rap­presentata compiutamente solo dalla completa vicenda fantastica dei temi contrapposti: dall’armonia che risulta tra «rifugio» e «fuga». Così nei versi di Gozzano si coglie un’angoscia di ciò che invecchia e insieme una forte ade­sione alla freschezza della natura flori­da e intatta; si osserva una noia per le cose quotidiane e insieme un turgido desiderio di vita reale e concreta. In questa oscillazione di contrasti, nel palpito musicale dal rifugio all’evasio­ne, sta la misura della poesia gozzania­na: una poesia che sa esprimersi in una scrittura che si muove graziosa­mente tra cadenze prosastiche e raffi­natezze espressive.