Roberta Scorranese , Corriere della sera 2/12/2009, 2 dicembre 2009
I signori dell’oro - Quando, nel Cinquecento, i conquistadores spagnoli assoggettarono le civiltà andine, portarono in dote un dio che prometteva la vita eterna
I signori dell’oro - Quando, nel Cinquecento, i conquistadores spagnoli assoggettarono le civiltà andine, portarono in dote un dio che prometteva la vita eterna. Ma gli Inca reagirono con sgomento: il loro dio non pensava all’eternità, bensì a far piovere al momento giusto. Ammansiva le bestie feroci e i fiumi, faceva girare la luna nel verso buono. Il loro dio era un serpente d’oro con gli occhi turchese o una coppa d’argento finemente istoriata che prometteva figli sani. Era un dio domestico, tangibile nella concretezza dell’oro. Ed eccolo questo paradiso zoomorfo, di oro e preziosi, in mostra a Brescia al Museo Santa Giulia. Piccoli mostri dentati dal ventre largo ai quali si implorava la fertilità nelle donne. Collane fatte di misteriose creature ghignanti, in oro lucente, che per loro erano lacrime di sole. «Erano espressioni dello huaca – precisa Giuseppe Orefici, co-curatore della mostra ’Inca – origini e misteri della civiltà dell’oro’ – cioè tutto ciò che per gli indigeni delle civiltà pre-ispaniche veniva ritenuto sacro». E sacro era anche il più piccolo anello della catena dei bisogni: pure una bottiglia in terracotta serviva a scongiurare la sete. Religiosità pervasiva, che divinizzava il quotidiano. La vita eterna appariva lontana. L’oro lo scoprirono con quello stupore che poi scomparirà nel lento processo di civilizzazione spagnola. Lucente, resistente e caldo: per loro era il Sole, letteralmente. «Dell’oro conoscevano anche altre proprietà – spiega l’iberista Antonio Aimi, curatore della mostra – come l’inalterabilità, fondamentale per i loro preziosi culti funerari». Come nella bellissima corona di cultura Cupisnique (1250 a. C.) o nel bizzarro ornamento per la fronte di cultura Moche, che disegnava sul viso del defunto un ultimo ghigno superbo, sprezzante. Anche della morte. Forse dell’oro conoscevano ben altro: le proprietà batteriostatiche (conserva bene i corpi) o persino i misteri sonori. L’oro per gli Inca era un essere vivente, che nasceva dalla terra (Pachamama) e vi ritornava, attraverso le sepolture. Un ciclo vitale, mutuato dalla natura umana. Nei quasi trecento pezzi in mostra non vedeteci solo maschere, collane o brocche: guardateli come «oggetti multisensoriali », raccomanda la curatrice Paloma Carcedo de Mufarech. E fu proprio questo ad affascinare Keith Haring, appassionato cultore delle civiltà precolombiane: oggetti che «parlano», che suonano, che si muovono. «Il colore – spiega Carcedo de Mufarech – la forma del manufatto, il suono che esso emette, il lampo o il fulgore che emana con il movimento». I piccoli mostri di Haring si muovono e danzano allo stesso modo. Un sottogenere del folk metal, l’Andean Metal, si rifarà poi a questa musica così ipnotica, struggente. Un panteismo colorato, multiforme. Anche nei tessuti, che per loro avevano valore simbolico: a volte degli abiti fittamente intessuti di fibre resistenti servivano a suggellare alleanze politiche. E in questo universo ogni pezzo si deve ricomporre, come il loro paradiso immaginato: la pioggia al momento giusto, il raccolto nel periodo più propizio, la morte che arriva quando deve arrivare. Ecco il cuore della civiltà Inca: un equilibrio omeostatico, dove il cosmo segue una sua giustizia ineluttabile. Il cervo è simbolo di vigliaccheria, il giaguaro di potenza. Cacciatori nomadi, dovettero spostarsi di frequente nelle terre dell’odierno Perù e così si fusero con la natura, arrivando a ricomporla arbitrariamente: gli zoomorfi in mostra sono tra gli oggetti più interessanti. Come la pala per la calce che culmina in una strana figura, metà uccello e metà scimmia, fatta di oro e turchese. O la brocca che ha una testa simile a un volatile. Poi, nei secoli (la mostra corre lungo nove sezioni che documentano tutto l’arco della civiltà, più di tremila anni), impararono che un luogo di culto stabile è più pratico. Nacquero le gerarchie e con esse anche rituali più organizzati. La cultura Sicàn (750-1375 d.C.) ci ha restituito maschere ispirate al sole (un disco d’oro) dove, in controluce, balugina una risata diabolica, forse quella di un mostro sconosciuto, visto solo nei pagos (rituali) a base di foglie di coca o chicha, birra di mais fermentato. Ma il professor Aimi ha un suggerimento: «Chiudete gli occhi». Nel senso: non cercate il significato di queste figure. nascosto, è segreto. Lasciatevi piuttosto spaventare. Sì, perché questa civiltà così splendente nasce anche da un patrimonio che poi si perderà: la paura. Il timore di un dio cattivo che scompagina gli equilibri e non fa piovere al momento giusto. anche dal timore che nascono queste maschere, queste collane. Gioielli come guanti d’oro di cultura Sicàn per proteggere le braccia del defunto. Poi venne la promessa della vita eterna e il monito: Non abbiate paura. Fine.