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 2009  dicembre 01 Martedì calendario

Conquistare il mondo cercando le spezie- Il commercio che ispirò le scoperte geografiche Iprimi secoli del se­condo millennio regi­strarono un autenti­co boom di pepe, can­nella, noce moscata e altre delizie del genere, che di­vennero un segno di presti­gio più importante del­­l’oro: il loro prezzo, conseguentemente, salì alle stelle

Conquistare il mondo cercando le spezie- Il commercio che ispirò le scoperte geografiche Iprimi secoli del se­condo millennio regi­strarono un autenti­co boom di pepe, can­nella, noce moscata e altre delizie del genere, che di­vennero un segno di presti­gio più importante del­­l’oro: il loro prezzo, conseguentemente, salì alle stelle. Dal libro delle spese domestiche del conte di Oxford nel 1431-32 risulta che si poteva ottenere un maiale intero per quattro etti e mezzo di una delle spezie meno care, il pepe. Un consuntivo compilato dall’ammini­strazione della famiglia Talbot nello Shrop­shire mostra che la spesa mensile per le spe­zie corrispondeva quasi al millesimo a quella destinata alla compera di carni bovine e sui­ne. Gli storici che hanno studiato il bilancio giornaliero delle famiglie reali hanno mostra­to che l’acquisto di spezie copriva una parte sostanziosa del bilancio complessivo destina­to all’alimentazione dei re e del loro ampio entourage. Il loro costo era altissimo. John Munro, uno storico dell’Università di Toron­to che ha calcolato i prezzi dei cibi in Inghil­terra nel 1439, ha stabilito che mezzo chilo di chiodi di garofano costava ben quattro giorni e mezzo di lavoro, occorrevano tre giorni per la stessa quantità di cannella; per poco meno di mezzo chilo di zafferano ci voleva addirittu­ra l’equivalente di un mese di lavoro. I re di Aragona-Catalogna hanno offerto e consuma­to fiumi di vino speziato, mentre nelle corti inglesi il veicolo favorito per la comparsa in tavola delle spezie erano le salse. Talché, so­stiene Paul Freedman ne Il gusto delle spezie nel Medioevo (pubblicato dal Mulino), si può dire che «di tutte le merci del mondo, le spe­zie sono quelle che hanno maggiormente in­ciso sulla storia». Proprio così: hanno inciso sulla storia. In che senso? Alle spezie va rico­nosciuto di aver «avviato l’Europa su una stra­da che finì per sfociare nel processo di con­quista oltremare, processo che, con i suoi suc­cessi e i suoi fallimenti, condiziona ancor og­gi ogni aspetto della politica mondiale». A dire il vero l’uso (o l’abuso) di spezie era già diffuso all’epoca dei romani, che pure an­cora non conoscevano i chiodi di garofano e la noce moscata. Nell’antichissimo testo di cu­cina romana di Apicio, più dell’80 per cento delle ricette richiede l’uso del pepe; e nel I se­colo dell’era cristiana Plinio il vecchio si ram­marica dell’eccessivamente diffuso ricorso al pepe fino a definire questa abitudine «un se­gno della follia popolare». A questo punto una notazione molto im­portante. Secondo Freedman è una leggenda che le spezie dovessero la loro fortuna al fat­to che bloccavano o rallentavano il processo di putrefazione della carne o che, quantome­no, coprivano odori e sapori poco gradevoli dovuti alla putrefazione stessa. In primo luo­go perché le spezie non danno risultati cla­morosi nel campo della preservazione delle carni, e non lo danno soprattutto se si compa­ra l’effetto a quello che si può ottenere met­tendo quelle stesse carni sotto sale, o in sala­moia, affumicandole o esponendole alla giu­sta aerazione. C’è poi la questione dei costi: fatti tutti i calcoli, tentare nel Medioevo di mi­gliorare una carne di dubbia commestibilità con chiodi di garofano o noce moscata sareb­be stato (sotto il profilo, appunto, del costo) come, ai giorni nostri, ravvivare con abbon­danti fette di tartufo il gusto di un cheesebur­ger acquistato in un fast-food. Ed è ugualmente una leggenda – sempre secondo Freedman – che l’invasione delle spezie in Europa sia avvenuta sotto l’influenza dell’islam. Nelle ricette europee d’epoca me­dievale gli spunti di impronta araba o persia­na sono assai scarsi. Le salse che nei manuali occidentali vengono presentate come «sarace­ne » si limitano ad essere di colore rosso, vale a dire il colore che nell’arte medievale rappre­senta l’islam. Una ricetta contenuta in carte del Quattrocento, conservate nella Morgan Li­brary, definisce «saracena» una salsa fatta con vino e carne di maiale, ambedue assoluta­mente vietati dalle regole dietetiche islami­che. Per di più l’islam, unica tra le grandi reli­gioni, ha sempre respinto l’uso dell’incenso o di altri prodotti della stessa specie sia nelle ce­rimonie religiose pubbliche che in quelle pri­vate. Niente islam, dunque. Se non come tra­mite per l’importazione di quei prodotti. E allora la spiegazione del boom medieva­le delle spezie va ricercata nel «prestigio» che esse ebbero in quei secoli. Ciò in obbe­dienza al criterio stabilito dal filosofo france­se Gaston Bachelard, secondo il quale «spiri­tualmente, la conquista del superfluo è più eccitante della conquista dell’indispensabile; l’uomo è una creatura del desiderio, non un essere motivato dalla necessità». In più va detto che questo tipo di alimenti era conside­rato sia fonte di piacere che una sorta di far­maco: le spezie erano un genere di lusso stra­vagante e contemporaneamente facevano be­ne alla salute, una combinazione di caratteri­stiche che – sostiene l’autore – nessun cibo odierno può pretendere di ripetere. Nell’Euro­pa medievale la differenza tra un mercante di spezie e un farmacista non è mai stata molto chiara e, in certi periodi, si può dire che non esistesse affatto. L’ambra grigia era ritenuta il principale farmaco preventivo nei confronti della peste: in uno dei primi trattati composti a seguito della catastrofica epidemia del Tre­cento, che uccise quasi un terzo della popola­zione europea, il medico catalano Jacme d’Agramunt, rivolgendosi al re d’Aragona, si raccomandava che per tenere lontana la ma­lattia venissero bruciati grani di ambra gri­gia, legno di aloe, mirra, incenso, storace, pe­tali di rosa essiccati, legno di sandalo. E il mo­naco benedettino Costantino l’Africano nel trattato De coitu elencò diciotto prodotti farmaceutici – tra i quali zenzero, cannella e chiodi di garofano – come i più efficaci rime­di contro l’impotenza e per altri problemi ses­suali. Infine la fortuna delle spezie fu determina­ta anche dal loro valore religioso, sacro. Ri­corda Freedman che l’immaginario medieva­le inerente ai profumi si distanzia nettamen­te da quello moderno, poiché si credeva che essi emanassero da un mondo prossimo al nostro ma diverso, un reame invisibile da cui scende a noi, per vari tramiti, quella fragran­za che ne è il simbolo percepibile. Per di più si considerava (ad esempio Isidoro di Siviglia nel VII secolo) che il Paradiso e il giardino del­l’Eden fossero nell’Asia orientale e che di lì esercitassero un influsso sulle terre vicine, l’India e l’Indonesia, rendendole eccezional­mente ricche in oro, gemme e spezie. E come tale descrissero l’India i primi viaggiatori: Jourdain di Sévérac (1320-28) e il francescano Odorico da Pordenone (1320-30). Prima di loro, nel XII secolo aveva iniziato a circolare in Europa una lettera, attribuita ad un mai prima (né poi) identificato prete Gian­ni che si definiva «imperatore delle tre In­die » e descriveva l’opulenza di un regno cri­stiano in Asia – il suo – protetto dalle reli­quie di San Tommaso e nutrito dal fiume Phi­son, che trascinava con sé gioielli provenienti dal paradiso terrestre; in quel Paese, si dice­va, c’è un’enorme ricchezza di spezie, un’inte­ra foresta di pepe e le lampade della reggia vengono alimentate esclusivamente con il balsamo. Nel 1177 papa Alessandro III inviò un suo emissario dal prete Gianni ma, una volta partito, di quell’uomo del pontefice non si ebbero mai più notizie. Poi ci furono le mis­sioni di cui si è detto. E altre ancora. Prove dell’esistenza di quel regno non se ne ebbe­ro. Ma il mito di prete Gianni resistette, pur restando per l’appunto un mito. Per oltre tre secoli. Talché al momento di partire nel 1497 alla volta di quelle terre, Vasco da Gama ave­va con sé lettere del re del Portogallo indiriz­zate al prete Gianni. A chi chiedesse perché nell’Europa medie­vale le spezie costassero tanto, si è fatto fin qui osservare che era solo una questione di domanda e offerta. Ma a parere di Freedman questa è una risposta «non del tutto sufficien­te ». Il valore era dovuto al «mito» e l’approv­vigionamento di questo bene (possibile solo nei mercati di San Giovanni d’Acri, Trebison­da, Alessandria d’Egitto) era limitato dalla grande distanza che separava l’Asia dall’Euro­pa, cosicché il viaggio aveva costi umani mol­to alti. Ad esempio solo metà della ciurma di Vasco da Gama riuscì a far ritorno dalla pri­ma navigazione alla volta dell’India. La prima circumnavigazione terrestre a opera delle na­vi di Magellano iniziò con circa 260 uomini, ma solo 18 rientrarono a Lisbona. Tra il 1500 e il 1634, il 28 per cento delle navi che erano salpate dal Portogallo per raggiungere l’India furono inghiottite dal mare e la percentuale dei deceduti cresce di molto se si includono i decessi per malattia o malnutrizione che si ve­rificarono tra i marinai delle navi tornate dai viaggi in quelle terre lontane. Fu la Riforma a interrompere quel delirio. Al tempo della Riforma, il poeta satirico tede­sco Urlich von Hutten si espresse in modo as­sai aspro nei confronti della seduzione di mercanti stranieri che invogliavano i conna­zionali del poeta a spendere il proprio dena­ro per «quei maledetti pepe, cannella, zaffera­no, chiodi di garofano» e attribuì alla nefasta influenza delle spezie la decadenza morale del suo tempo. Suo bersaglio erano i Fugger, banchieri dell’imperatore nonché devoti cat­tolici. Ma anche i preti e i cardinali di Roma sprofondati nella «depravazione gastronomi­ca ». Tale condanna ebbe immediatamente un’eco nelle parole di Martin Lutero. Ma que­sto genere di critica era nato già qualche tem­po prima e precisamente nel XII secolo, al­l’epoca del confronto tra i monasteri francesi di Cluny e di Chiaravalle. San Bernardo, abate di Chiaravalle nonché direttore dell’ordine dei cistercensi, nel denunciare l’opulenza e la magnificenza di Cluny (arredi sontuosi, scul­ture raffinate, belle vesti dei monaci) puntò l’indice proprio contro le innovazioni culina­rie: «Perché il palato, sintanto che venga sti­molato da nuovi condimenti, gradualmente perde attrazione per ciò che è familiare e vie­ne ricondotto pieno di brama nel suo deside­rio dalle spezie straniere, come se sino a quel­­l’istante avesse digiunato». Poi fu il riformato­re inglese del Trecento John Wycliffe a soste­nere, in un libello sull’Anticristo, che le spe­zie e gli altri alimenti di gran lusso erano il simbolo di un livello di perversione letteral­mente apocalittico. Anche Dante mette le spe­zie nell’Inferno, per la precisione nel canto XXIX, dove si racconta della punizione degli alchimisti (Capocchio) e di quei senesi, come Niccolò dei Salimbeni, «che la costuma ricca del garofano (i chiodi di garofano, ndr ) pri­ma discoperse». E Geoffrey Chaucer, l’autore dei Racconti di Canterbury , pur con qualche ambiguità, le denuncia come causa di un «in­sensato spreco » . All’epoca delle crociate, dopo la caduta di San Giovanni d’Acri (1291), e in risposta al ve­nir meno dei regni crociati, il papato aveva proibito ogni accordo con le autorità islami­che e, ancorché questo editto fosse frequente­mente violato in particolare da veneziani e ge­novesi, l’embargo ebbe il potere di stimolare la creazione di piani visionari per giungere al­le terre di prete Gianni aggirando le regioni controllate dagli islamici; piani che nel giro di due secoli furono realizzati: e furono le grandi spedizioni alla fine del Quattrocento e all’inizio del Cinquecento. I viaggi di Colombo, Vasco da Gama e dei loro successori, secondo Freedman, «non fu­rono tentativi per scoprire dove fosse l’India – la cui collocazione era nota sin dai tempi di Marco Polo – ma di trovare un percorso diretto ed esclusivamente marittimo per co­gliere i frutti del commercio delle spezie, sfi­dando in primo luogo l’islam, ma anche Vene­zia e Genova». Il tutto organizzato da Spagna e Portogallo con la benedizione dei pontefici. Ma conveniva? A quei tempi assolutamente sì. Basti pensare che tra il 1519 e il 1522 i viaggi della flotta di Magellano – navigatore porto­ghese finanziato dai Fugger, che coprì una di­stanza di quindici volte quella della prima missione di Colombo – pur risolvendosi nel disastro di cui si è detto (si salvò una sola na­ve, la «Victoria») sul piano finanziario fecero realizzare un buon profitto. Anzi, un ottimo profitto. Gli strali della Riforma e il successo di que­sti viaggi ebbero il potere di mettere in crisi il «mito» delle spezie. Freedman individua l’an­no in cui si manifestò il declino nel 1648 quan­do la principessa francese Maria Luisa di Gon­zaga si recò in Polonia per incontrare il re Gio­vanni II, suo promesso sposo. Furono organiz­zati sontuosi banchetti, ma i piatti erano così carichi di spezie da risultare, riferisce un testi­mone, «immangiabili». Nel 1665 il poeta fran­cese Nicolas Boileau scrisse Il pasto ridicolo, una satira assai pungente nei confronti di pe­pe, cannella e chiodi di garofano. Elementi che, se nel Trecento erano presenti nel 70 per cento delle ricette, adesso nel Cuisinier roial et bourgeois , un testo culinario francese del 1691, si riducevano a un numero ridottissimo di prescrizioni. E uno dei tratti distintivi della rivoluzione gastronomica francese del Sette­cento fu proprio il rifiuto delle spezie. Ma, riferisce Freedman, il «mito» delle spe­zie non perse in un battibaleno la sua capacità di suggestione. Nel 1667, Run, una minuscola isola produttrice di noci moscate dell’arcipela­go Banda, fu scambiata dagli inglesi con l’inse­diamento olandese di Nuova Amsterdam, il futuro centro di New York: «Il re Carlo II d’In­ghilterra – osserva Freedman – poteva an­che essere convinto di aver guadagnato nello scambio, ma certamente non poteva immagi­narsi quanto sarebbe stato diverso, in futuro, il valore rispettivo di Manhattan e di Run». E certo gli anni a seguire avrebbero rivelato che, con quel baratto incentrato sul valore del­la noce moscata, l’Olanda non fece un buon affare.