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 2009  dicembre 01 Martedì calendario

Medici in corsia fino a 70 anni Lo prevedono due nuove norme votate alla Camera e in Senato Caos sull’età pensionabile

Medici in corsia fino a 70 anni Lo prevedono due nuove norme votate alla Camera e in Senato Caos sull’età pensionabile. Le proteste di Regioni e Università Meglio rottamarli. Anzi no. In soli 410 giorni il limite d’età per mandare in pen­sione i medici d’Italia è cambiato ben tre volte. Non solo: dal volerli mandare via a 58 anni o giù di lì, adesso due nuovi provvedimenti in discussione alla Camera e al Senato mirano a tenerli in corsia fino ai 70. Il risultato è il caos totale. Tra il mal di pancia delle Regioni, le proteste dell’Università e la pioggia di ricorsi degli interessati. Sullo sfondo due da­ti di fatto: in soli sei anni (dal 2001 al 2007) i medici con più di 55 anni so­no raddoppiati (da 11.948 a 28.300, pari al 27% del totale); l’età media in corsia nello stesso periodo è cresciu­ta di 3 anni (da 47 a 50). Lo dimostra­no le statistiche elaborate da Carlo De Pietro, ricercatore del Centro di ri­cerche sulla gestione dell’assistenza sanitaria sociale (Cergas) della Bocco­ni.  il 25 giugno 2008 quando il de­creto legge 112 voluto dal ministro Renato Brunetta crea scompiglio tra i 106 mila camici bianchi italiani: il suo ormai famoso articolo 72 dà il via, infatti, alla «rottamazione» dei medici con 40 anni di contributi (la­voro effettivo, più militare, più riscat­to della laurea). Nove mesi dopo, il 5 marzo 2009, la legge numero 15, cor­regge il tiro: a fare fede diventano gli anni di anzianità e non più quelli di contributi, e i vertici degli ospedali possono di fatto lasciare a casa chi è in servizio da 40 anni. Ma la norma resta in vigore appena 138 giorni. Il 5 agosto 2009, con la legge 102, c’è una tripla retromarcia: i primari ven­gono salvati dalla risoluzione unilate­rale del contratto di lavoro, ritorna il principio dell’anzianità contributiva e la possibilità di ricorso ai prepen­sionamenti viene limitata a soli tre anni (2009, 2010, 2011). Ora sembra di nuovo tutto da rifa­re. Appena le norme sembrano final­mente definite, infatti, lo scorso ago­sto, spuntano due (contro) emenda­menti che stanno viaggiando su stra­de separate: uno è stato approvato dalla Commissione affari sociali del­la Camera il 27 ottobre, l’altro ha otte­nuto il via libera del Senato il 26 no­vembre. Ma, ovviamente, i due testi legislativi prevedono regole diverse. La misura votata dalla commissione Affari sociali, all’interno del disegno di legge sul governo clinico, alza l’età pensionabile di tutti i camici bianchi al compimento dei 70 anni (come quella dei baroni universitari e dei primari). « un modo per per­mettere ai medici, che difficilmente vengono assunti prima dei 32-33 an­ni, di andare in pensione con tutti i contributi versati», spiega Domeni­co Di Virgilio, sottosegretario alla Sa­lute e autore del Ddl. La modifica al disegno di legge in tema di lavoro pubblico, che ha appena avuto il via libera del Senato, introduce invece per i dottori del servizio sanitario na­zionale la possibilità di andare in pensione non più a 65 anni, ma – su richiesta – al compimento del 40˚ anno di servizio effettivo (non ol­tre, però, i 70 anni). «Così medici ospedalieri e universitari vengono messi sullo stesso piano recuperan­do per tutti, primari e non, gli stessi diritti e le stesse opportunità», dico­no praticamente all’unisono il sena­tore del Pdl Michele Saccomanno, il senatore del Pd Daniele Bosone, vice­presidente della commissione Sani­tà, e Fabio Rizzi della Lega. Denuncia il segretario nazionale della Cgil medici, Massimo Cozza: « singolare che per uscire dalla morsa dei prepensionamenti coatti voluti fortemente dal ministro Brunetta si debba arrivare al pensionamento a 70 anni. Bastava eliminare la sola rot­tamazione ». Eccolo, il pasticcio italia­no sull’età in cui mandare in pensio­ne i camici bianchi. I nuovi provvedi­menti sono legati da un filo rosso: la limitazione dell’iniziale «fuoritutti» dopo 40 anni di contributi introdot­to dal ministro Renato Brunetta. Ma il cambiamento di rotta è malvisto dalle Regioni. Gli enti locali fanno le­va sul federalismo in materia sanita­ria e sono preoccupati per la sosteni­bilità economica dei provvedimenti in discussione: i medici anziani, ov­viamente, costano di più delle nuove leve. Storcono il naso anche le universi­tà. Agli atenei sta a cuore soprattutto lo svecchiamento della classe medi­ca. Un segnale importante, in questa direzione, arriva da una decisione del Senato accademico della Statale di Milano: già nel dicembre 2008 l’università guidata dal presidente della Conferenza dei rettori (Crui), Enrico Decleva, vota una delibera per anticipare di due anni il pensio­namento dei baroni, ai quali fino allo­ra era consentito di esercitare fino ai 72 anni. « una decisione presa per fare spazio ai giovani – ribadisce Virgilio Ferrario, preside della facol­tà di Medicina della Statale ”. Tutti li nominano, ma poi le iniziative con­crete per aiutarli sono poche». E i diretti interessati? Loro, i medi­ci, hanno dato il via a un’escalation di ricorsi al Tar. Ma le prime senten­ze, arrivate all’ospedale Policlinico di Milano, li hanno visti perdere in mas­sa: i vertici dell’azienda ospedaliera, infatti, avevano il diritto di licenziar­li perché avevano raggiunto i 40 an­ni di anzianità, come previsto da una delle varie versioni delle disposizio­ni in materia, quella rimasta in vigo­re tra il marzo e l’agosto 2009. Del re­sto, avverte Riccardo Cassi, presiden­te del Coordinamento italiano medi­ci ospedalieri (Cimo) «il pensiona­mento con 40 anni effettivi di servi­zio previsto dal Senato è un segnale positivo. Ma la mancata abrogazione della norma reintrodotta quest’esta­te consente ai direttori generali delle aziende ospedaliere di continuare a licenziare i professionisti per ridurre il deficit». Riassume Giuseppe Gar­raffo, segretario della Cisl medici: «Si è passati da un’esagerazione all’altra. Da mesi il destino dei medici è appe­so alle norme in vigore nel momento in cui i vertici dell’azienda ospedalie­ra decidono il da farsi. Il giorno dopo può essere tutto diverso». Il dibattito, dunque, è all’ordine del giorno, ognuno ha le sue ragioni: l’anzianità, in campo medico (e non solo), non va di pari passo con l’espe­rienza? Ma se non c’è ricambio, i neo­laureati che fine fanno? Certo, legife­rare in questa materia è complesso: in un recente articolo sull’argomen­to l’economista Giuliano Cazzola (Pdl) si rifà al motto dell’ex ministro del Lavoro dc, Carlo Donat Cattin: «Il potere contrattuale di un primario ospedaliero è maggiore di quello di tutta una corte di metalmeccanici».