Giuseppe Berta, La stampa 30/11/2009, 30 novembre 2009
”Chimerica”, il mondo a due velocità- Un mondo a due velocità, con l’Oriente che cresce a ritmi intensi e un Occidente ripiegato a causa della stagnazione economica: una visione minacciosa del nostro futuro prossimo che episodi come la bolla speculativa di Dubai della settimana scorsa, con una possibile recrudescenza della crisi, rendono ancora più concreta
”Chimerica”, il mondo a due velocità- Un mondo a due velocità, con l’Oriente che cresce a ritmi intensi e un Occidente ripiegato a causa della stagnazione economica: una visione minacciosa del nostro futuro prossimo che episodi come la bolla speculativa di Dubai della settimana scorsa, con una possibile recrudescenza della crisi, rendono ancora più concreta. lo scenario che si profila durante la conversazione con Niall Ferguson, oggi lo storico più famoso della finanza internazionale. Ferguson, 45 anni, professore di Storia all’università americana di Harvard ma scozzese di nascita, è uno studioso che si è distinto per le sue ricerche ad amplissimo raggio sulle dinamiche finanziarie globali, condensate in libri celebri come Soldi e potere e The House of Rothschild, una monumentale ricostruzione dell’aristocrazia del denaro dalle origini nel Settecento fino a oggi. Ferguson scandaglia il presente e il futuro alla luce dell’analisi delle maggiori tendenze storiche, senza separare mai l’evoluzione economica dal ruolo della politica e delle istituzioni. Ho incontrato a Milano Ferguson, il cui libro più recente, Ascesa e declino del denaro. Una storia finanziaria del mondo, è appena uscito in traduzione italiana da Mondadori (pap. 306, e30), in occasione del convegno su «Geopolitica e mercati finanziari, prospettive 2010», organizzato da Kairos, realtà indipendente nel risparmio gestito, per i suoi dieci anni d’attività. Professor Ferguson, osservando la crisi globale in prospettiva storica, in che misura ci appare differente dalle altre grandi crisi che l’hanno preceduta? «Dal punto di vista della sua forma e dell’andamento, l’attuale crisi globale non è stata poi così diversa dalle precedenti, a cominciare dalla più citata, quella del 1929. Anzi, se mettiamo a confronto i grafici di caduta degli indicatori economici, stabilendo un parallelo tra la Grande Depressione della fine degli anni 20 e ciò è successo dall’estate del 2007, dobbiamo riscontrare che per un certo tratto le curve risultano assai simili. Dunque, abbiamo davvero corso il pericolo di una seconda Grande Depressione. L’abbiamo evitato, da un determinato momento in poi, perché abbiamo messo a frutto la lezione di Milton Friedman e le istituzioni hanno operato per allargare la base monetaria, in modo che non si ripetessero gli errori di ottant’anni fa. E, naturalmente, abbiamo riscoperto anche la lezione di Keynes, come testimonia il deficit del bilancio federale americano». Per questo sostiene che è necessario guardare alla storia economica? E per questo ha polemizzato con gli economisti che non hanno prestato attenzione sufficiente ai dati concreti della trasformazione economica e finanziaria? «Credo che gli storici dell’economia e delle istituzioni abbiano molto da dire su questa crisi, perché la si comprende guardando alla sua evoluzione profonda piuttosto che ai modelli teorici. La scienza economica ha inseguito modelli di razionalità che trascurano come il comportamento dei mercati sia influenzato da elementi extrarazionali. Chi esamina la dinamica economica in prospettiva storica si rende conto, al contrario, che è animata da un gioco di interessi, tensioni e conflitti indipendenti dal calcolo razionale. Vorrei che le università traessero da questa crisi la convinzione che va dato più peso, nei programmi d’insegnamento, alla storia economica». Questo diverso punto di vista l’ha portata a polemizzare anche duramente con economisti autorevoli come il premio Nobel Paul Krugman. Soprattutto per quanto riguarda i possibili scenari di uscita dalla crisi. «Sì, il rischio maggiore che intravedo, alla fine della crisi, non è tanto quello dell’inflazione, paventato da quanti sottolineano le enormi dimensioni della massa di credito che è stata attivata per sventare una nuova Grande Depressione. Si tratta piuttosto di un mondo che viaggia a due velocità economiche, alta in Asia e bassa, anche molto bassa, in Occidente. Un rapporto che potrebbe essere simboleggiato nella formula ”10 a 10”: 10% di tasso di crescita del Pil in Cina contro il 10% di disoccupati negli Stati Uniti». Stiamo parlando del fenomeno per cui lei nel suo libro ha coniato la definizione di «Chimerica»? «Proprio. Sommando assieme Cina più America abbiamo ”Chimerica”: il 13% della superficie della Terra, il 25% della popolazione mondiale, il 33% del prodotto lordo globale, il 40% del valore della crescita totale nel decennio 1998-2007». Sì, ma anche, come ha appena detto, due realtà legate da un rapporto non certo basato sulla simmetria. « così e mi pare l’abbia dimostrato anche il recente viaggio in Cina del presidente Obama. Gli Usa non hanno strumenti, per esempio, per imporre alla Cina una rivalutazione della sua moneta, mentre il dollaro si indebolisce. Non dispongono di potere di condizionamento perché i cinesi controllano una quota imponente dei titoli del debito pubblico americano e hanno riserve pari a 3 trilioni di dollari. Ecco perché si delinea un futuro molto problematico per l’Occidente, per tutto l’Occidente, in quanto la potenza industriale dei cinesi è un problema grave anche per l’Europa e per un paese come l’Italia». Le sue parole non sembrano lasciare adito a molto ottimismo per noi occidentali. «Descrivo una linea di tendenza, non un processo irreversibile. Io credo che la Cina continui a essere un sistema contraddittorio, con un’economia di mercato incapsulata in un meccanismo di pianificazione centralizzata, dipendente da un regime autoritario. Sono convinto che tra i grandi elementi di vantaggio dell’Occidente ci sia la nostra forma di rappresentanza democratica fondata sui diritti di proprietà e sulle libertà individuali. E anche la nostra capacità di innovazione, superiore a quella di cui ha fin qui dato prova l’Oriente. Per combattere la minaccia di declino, in un’epoca di metamorfosi, l’Occidente deve però cambiare marcia e riformare le proprie istituzioni». Che intende per riformare le istituzioni? «Intendo dire che non funziona più il sistema istituzionale configurato alla metà del secolo scorso, dal fisco al Welfare State. Ci vorrebbe un approccio ancora più radicale rispetto agli anni della signora Thatcher e di Reagan. Ma purtroppo oggi la destra occidentale / non dispone né di una cultura né di una capacità di elaborazione culturale adatta a un compito così impegnativo». E se non si imboccherà questa strada? «Allora il destino dell’Occidente rischia di assomigliare a quello dell’Argentina, una nazione periodicamente ricacciata indietro sulla via dello sviluppo a causa dell’inadeguatezza delle proprie istituzioni».