Egle Santolini, La stampa 30/11/2009, 30 novembre 2009
”Ma qui a Hollywood non mi manda papà”- Alessandro Camon, sceneggiatore veneto a Hollywood, quarantaseienne, è un piccolo patrimonio nazionale del quale ancora non ci siamo accorti e se non ci credete ecco come elogia i dialoghi del suo film, The Messenger, David Denby del New Yorker: «Può darsi che qualche sfumatura del modo di parlare americano non sia stata colta, ma se è così io non me ne sono accorto»
”Ma qui a Hollywood non mi manda papà”- Alessandro Camon, sceneggiatore veneto a Hollywood, quarantaseienne, è un piccolo patrimonio nazionale del quale ancora non ci siamo accorti e se non ci credete ecco come elogia i dialoghi del suo film, The Messenger, David Denby del New Yorker: «Può darsi che qualche sfumatura del modo di parlare americano non sia stata colta, ma se è così io non me ne sono accorto». Il che significa: qui c’è qualcuno nato da un’altra parte del mondo che capisce perfettamente i nostri meccanismi di pensiero. Se aggiungete che il film, che a un certo punto doveva finire nelle mani di Sydney Pollack, è diretto da un esordiente anche lui non «made in Usa», l’israeliano Oren Moverman, vi viene la curiosità di sapere che cosa c’è dietro. Soprattutto vista la trama. The Messenger (in uscita in Italia la prossima primavera, distribuito dalla Lucky Red, nel cast Woody Harrelson e Samantha Morton) racconta di un capitano e di un sergente addestrati a comunicare la ferale notizia ai parenti dei caduti in Iraq. Nonostante il tema straziante, riesce a incorporare nella storia anche toni da commedia. E così facendo riproduce l’impasto inesplicabile della vita, che è sempre pesantissima e leggera insieme. Camon, come si fa a scrivere a proposito degli americani in americano? «Beh, il cinema di Hollywood è stato fatto in buona parte proprio da gente che arrivava da altrove. Quel che le posso dire è che, proprio in quanto outsider, ho affinato una curiosità particolare nei confronti delle frasi idiomatiche e anche delle abitudini di vita che ho trovato qui. Essere straniero all’inizio è sicuramente un handicap professionale, ma sul lungo periodo si trasforma in un vantaggio: ti costringe a prestare molta attenzione alle sfumature e ti dà una prospettiva diversa, perché vedi aspetti che dall’interno non si colgono». Ma a Hollywood lei come c’è finito? «Dopo la laurea in Filosofia a Padova, con una tesi sull’estetica della violenza nel cinema dagli anni Sessanta in poi, ho cominciato a scrivere articoli su riviste specializzate come Il mucchio selvaggio e saggi su John Milius e David Lynch. Quando sono riuscito a intrufolarmi sul set dell’Ultimo imperatore, è stato Bernardo Bertolucci a darmi il consiglio giusto: visto che sei abbastanza giovane, mi ha detto, ti converrebbe proprio andare in America. Ho frequentato un master all’Ucla e ormai sono qui da dieci anni. Ho sudato parecchio e molti progetti non sono andati in porto. stato utile cominciare con la produzione quando ancora non sapevo bene l’inglese ed è lì che ho avuto già qualche soddisfazione: come produttore ho firmato Thank You For Smoking e il remake del Cattivo tenente, quello ambientato a New Orleans con Nicolas Cage. Ma ho sempre avuto chiaro di voler fare lo sceneggiatore». The Messenger tocca un argomento vitale per la coscienza civile americana... «Eppure quando Oren e io abbiamo cominciato a pensarci, tre anni fa, il costo della guerra era certo sentito in termini politici e finanziari, ma non tanto in termini umani. D’altra parte, il divieto di mostrare le bare all’opinione pubblica è caduto solo molto recentemente. Negli Stati Uniti l’esercito è formato da professionisti, in genere di basso livello sociale: in qualche modo, una minoranza misconosciuta. Di questa guerra, come dell’Afghanistan, abbiamo visto moltissimo, fin troppo, grazie agli inviati ”embedded”: questo era il lato oscuro». Quando si pensa ai messaggeri dell’esercito, viene subito in mente una famosa scena di Salvate il soldato Ryan. «Quella scena del film di Spielberg riproduce in effetti un evento eccezionale ai tempi della Seconda guerra mondiale. La prassi di comunicare la morte ai parenti di persona, e non per telegramma è cominciata durante la guerra del Vietnam». Avete usato dei consulenti militari? «Sì. Questo film ha avuto il privilegio di essere stato realizzato con il coinvolgimento diretto dell’esercito, circostanza che si presenta veramente di rado nel caso di soggetti drammatici sulla guerra. Abbiamo girato a Fort Dix nel New Jersey, le comparse sono soldati autentici appena tornati dall’Iraq o alla vigilia di partire». Ora che cosa sta preparando? «Un thriller su una ragazza rapita da un serial killer. Cerchiamo l’attrice adatta. E poi una storia ambientata a New Orleans, che racconta gli sporchi affari sulla ricostruzione della città dopo Katrina». In che lingua parla con i figli? «Sempre in inglese, mia moglie è britannica e mi parrebbe strano usare con i bambini uno strumento diverso da quello della mia vita quotidiana. Ma mio padre, Ferdinando Camon, lo scrittore, non è per niente d’accordo».