Raffaella Polato, CorriereEconomia 30/11/2009, 30 novembre 2009
Fiat Gli operai e la produttività: ecco tutti i tagli di Marchionne- Con 21 mila 900 dipendenti in Italia prodotte 600 mila auto: come in Polonia Italia: cinque stabilimenti, 645 mila auto, 21
Fiat Gli operai e la produttività: ecco tutti i tagli di Marchionne- Con 21 mila 900 dipendenti in Italia prodotte 600 mila auto: come in Polonia Italia: cinque stabilimenti, 645 mila auto, 21.900 dipendenti. Polonia: un solo stabilimento, 600 mila auto, 5.800 dipendenti. Brasile: un solo stabilimento, 700 mila auto (per i pignoli: inclusi 20-30 mila furgoncini), 8.700 dipendenti. Sono i numeri che Sergio Marchionne ricorderà, domani, a Claudio Scajola. Numeri che in realtà al ministro dello Sviluppo non dovrebbero suonare nuovi. A lui, e al governo, e al sindacato, l’amministratore delegato Fiat li ha già fatti presenti. Per dire quello che ripeterà sia domani, sia al vertice in programma a Palazzo Chigi con Silvio Berlusconi e le parti sociali (sotto Natale, il 21 o il 22 dicembre secondo un annuncio dello stesso Scajola). La sostanza: io sono qui, sono pronto a cercare una soluzione. Ma dev’essere «una soluzione intelligente », in cui ognuno si assuma un ruolo e «una responsabilità». Perché, per dirla con il numero uno del Lingotto, «non ci vuole un genio per capire che la produttività, negli stabilimenti italiani, è totalmente sproporzionata, che non posso mantenere questa struttura: è in perdita in partenza». I numeri, la logica Solo logica industriale?Si può anche metterla così, e del resto lui lo rivendica (con implicita, orgogliosa contrapposizione alla pura logica politica: «Sono un metalmeccanico, il mio mestiere è produrre e vendere auto, camion, trattori »). Si può aggiungere che i numeri non sono tutto. E sarebbe, è certamente vero: dietro ci sono storie, famiglie, vite. Non le cancelli così, un tratto di penna e via, un delete sulla tastiera del computer e il problema è risolto. Nemmeno le difendi, però, con lo stereotipo opposto. E sono i sindacati i primi a sapere che i vecchi schemi non funzioneranno, probabilmente, nella trattativa di fatto già aperta sul piano Fiat. Per una ragione: Marchionne, quegli schemi, li ha frantumati. Qualcuno può dire: con arroganza. Nessuno però può negare che c’è qualcosa che non funziona, nel sistema Italia, se qui – fatta la «tara» anche al calo produttivo che da noi ha colpito molto più che nelle altre fabbriche – serve suppergiù il triplo dei dipendenti polacchi o brasiliani (e serbi, fra un po’) per fare lo stesso numero di macchine. Non è nemmeno questione di costo del lavoro: sul livello dei salari non ci sarebbe partita, certo, ma il divario sarebbe assolutamente sostenibile, anzi, è forse la variabile meno decisiva. Ma è di Polonia e Brasile che stiamo parlando, non di Paesi del Terzo mondo con turni in fabbrica da dodici ore e zero diritti, il nodo italiano sta evidentemente dalle parti di flessibilità e produttività. Oltre che nella struttura a cinque stabilimenti. Il differenziale questo quello che Marchionne ripeterà. Al governo, ai sindacati. Ribadirà: prima della grande crisi il «differenziale Italia» poteva essere gestito, «potevamo finanziarlo», ma ora che «è cambiato il mondo non possiamo arroccarci in una realtà che non esiste più». Inviterà: su quei numeri, tutti dovremmo riflettere. E il messaggio sarà lo stesso inviato in queste settimane: non si può pensare che sia la Fiat a farsi carico in toto di differenziali – appunto – che non dipendono tutti e soltanto dall’azienda, le soluzioni si possono trovare ma solo se ciascuno si assumerà il proprio ruolo e le proprie responsabilità. Il che significa sedersi a un tavolo, e lavorare insieme. Logica industriale, logica sindacale e logica politica non contrapposte: a confronto, e alla ricerca di una sintesi. Accadrà? Il tavolo certamente si aprirà. Quanto possa restarci, aperto, è però da vedere. Perché da tutto il discorso resta comunque fuori Termini Imerese. Dice Marchionne: ogni auto prodotta lì ci costa almeno mille euro più che in qualsiasi altro stabilimento; le infrastrutture promesse decennio dopo decennio dai governi regionali e nazionali, e per le quali anche Fiat era pronta a investire, non sono mai arrivate; in un mercato che ha una sovracapacità del 30% può parlare di «follia» (come l’ha chiamata Scajola) solo «chi non capisce i dati». E i dati dicono, fra l’altro, che «per anni abbiamo sovvenzionato un’attività in perdita in partenza: nel mondo dopo la crisi non possiamo più permettercelo ». E sì, certo che lo sa, Marchionne, quale bomba sociale esploderebbe con la chiusura (dal 2011) dell’unico vero polo industriale siciliano. Gli è tutt’altro che indifferente. Ma, avverte dopo aver studiato alternative giudicate una dopo l’altra impraticabili, «non potete scaricare sulla Fiat, solo sulla Fiat, problemi politici ». Gli rispondono, di solito: «Vuole solo gli incentivi ». Chi lo crede davvero, rischia la doppia sorpresa. «Gestirò qualsiasi decisione prenderà il governo» è frase facile da tradurre. Marchionne non sta giocando, su Termini, non è questione di baratto o, peggio, ricatto Sicilia-ecoincentivi. Non ci saranno, questi ultimi? Okay: «L’impatto sul mercato italiano sarà un calo da 2,1 a 1,7 milioni di auto». Lui adeguerà di conseguenza la produzione delle fabbriche Fiat. E a quel punto, forse (e sicuramente per il 2010), la più a rischio tornerebbe Pomigliano.