Carlo Puca, Panorama, 3 dicembre 2009, pag. 177, 3 dicembre 2009
DE (MALA) SENECTUTE DI CARLO PUCA PER PANORAMA 3 DICEMBRE 2009
«La vita è come una stratificazione geologica. E la vecchiaia è uno degli strati. Non subisce un andamento progressivo, capita all’istante. Ed è in quell’istante che talune persone diventano più aggressive, permalose. Soprattutto rancorose». La simbologia è di Manlio Sgalambro, classe 1924, poeta e paroliere delle musiche di Franco Battiato. Sgalambro è però soprattutto filosofo e scrittore (anche) di un fortunato Trattato dell’età. Dice: «L’uomo rancoroso è un uomo anziano che non affronta a viso aperto l’invecchiamento. Resta sospeso con la gioventù, dalla quale cerca di perpetuare la possibilità di fare determinate cose. Il rancore nasce appunto dalla impossibilità di farle». la «mala senectute».
Il racconto è quello di una vecchiaia priva di dolcezza. Per esistere e «resistere, resistere, resistere» (parole dell’eroe di Mani pulite Francesco Saverio Borrelli), raggiunta la maturità degli anni, molti accusano l’immaturità del carattere. E si concedono il tratto dell’indignazione permanente effettiva, si danno all’esternazione prêt-à-porter. Così, per citare l’archetipo perfetto, l’ultima volta che ha parlato, il presidente emerito Oscar Luigi Scalfaro, 91 anni, lo ha fatto in linea con Borrelli, 79: per dire, con faccia spontaneamente contrita, che il nostro «è il tempo peggiore che vive il Paese». Più della guerra. E degli anni di piombo.
Ma se Scalfaro traccia il solco, è il 78enne Furio Colombo che lo difende. L’ex direttore dell’Unità è incarognito al punto da far piombare l’Italia, la sua Italia, «in un periodo oscuro e losco». E se rimane costante l’acidezza verso Silvio Berlusconi («Ha trasformato la politica in attentati mediatici, trappole preparate con personale moralmente adatto, minacce e intimazioni di obbedienza»), nuovi rivali s’intravedono nel suo stesso partito, il Pd: Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani. Colpevoli, sia chiaro, di non essere «abbastanza antiberlusconiani»; anzi di professare l’idea malefica «che l’antiberlusconismo non paga».
Un furore contagioso, che nemmeno il più austero dei palcoscenici riesce a stemperare. Ne è rimasto colpito anche il settantacinquenne Carlo De Benedetti, presidente del gruppo Espresso-Repubblica, che la sera del 23 novembre, nel bel mezzo della sua conferenza al Reuters institute for the study of journalism della Oxford University, ha messo da parte ogni aplomb britannico ed è sbottato: «L’Italia è l’unico paese democratico al mondo in cui un unico soggetto, che è capo del più grande partito, capo della maggioranza parlamentare e capo del governo, domina di fatto l’universo televisivo nazionale». Solfa vecchia, in Italia. E, a occhio, non troppo incisiva neppure all’estero, dove è buona prassi democratica che il capo del primo partito sia anche capo del governo e della maggioranza parlamentare.
Forse però l’ambiente più saturo di inaspriti è quello dei giornalisti. Un aneddoto risulta il più spettegolato. Il 6 novembre 2007 muore Enzo Biagi, un gigante. Sulla Repubblica Giorgio Bocca, nato nel 1920 e grande vecchio della stampa italiana, scrive: «Ricordo che Biagi fu il primo a stabilire un rapporto continuo con la grande industria, divenne il consulente della Edison, stabilì dei rapporti con gli industriali che a noi piemontesi sembravano quasi scorretti, come uno sconfinamento in terreni proibiti (…) Nel suo giornalismo non c’era il timore del peccato e dello scandalo che nel nostro era sempre presente». Non potendolo dare sul collega vivo (scrivevano entrambi sullo stesso settimanale) il suo corrosivo giudizio Bocca lo ha dato sul collega morto.
Persino il 94enne regista Mario Monicelli, il 7 giugno 2008, alla morte del collega-rivale Dino Risi, è stato più diplomatico: «Il tono con cui parlavamo era sempre molto caustico e dissacratore nei riguardi l’uno dell’altro». Chapeau.
Ma Bocca è diverso. Viene ricordato per un altro scontro verbalmente cruento, questo sì esploso in vita: con Giampaolo Pansa, 74 anni, che quanto a permalosità pure non scherza. Nel 2004 esce Il sangue dei vinti, libro sui delitti compiuti dai partigiani. Apriti cielo. Dice Bocca: «Più che un libro inchiesta, è una vergognosa operazione opportunista». Ancora: «Pansa si dice antifascista. Ma è vergognoso far uscire un libro del genere». Replica Pansa: «Il mio ex amico Giorgio Bocca era visceralmente fascista, antiebreo, anzi antisemitico, come lui stesso scriveva sul giornale fascista di Cuneo».
soltanto l’inizio. Tuttora, a ogni occasione, pubblica e privata, Bocca dà almeno del «voltagabbana» a Pansa. Che ricambia, e nell’ultimo suo libro, Il revisionista, scrive: «Sono rimasti famosi gli abbagli presi per anni da Bocca», come quello della Lega accostata «ai partigiani che scendevano dalle montagne». attesa l’ennesima coltellata.
Di duelli senili è piena la Repubblica. Si può resistere per una vita, ma le coppie male assortite prima o poi scoppiano. La politica è esemplare. Il rapporto tra Francesco Cossiga e Ciriaco De Mita è definitivamente saltato il 21 febbraio 2008. Quando Walter Veltroni rifiuta al leader di Nusco il seggio al Senato. E l’ex capo dello Stato scrive la seguente lettera aperta: «On. De Mita, anche se pessimo segretario politico e ancor peggiore ministro e presidente del Consiglio – una versione moderna e democratica del clientelismo meridionale – Lei rimarrà sempre nella storia politica del Paese (...) Non immiserisca però questa Sua figura (...) non scivoli nel patetico e nel ridicolo, dando vita a una piccola e fasulla lista campana! Caso mai, in cambio, si faccia dare qualche Asl!». La reazione di De Mita è caustica: «Io non parlo di Cossiga dal 1990. Non so nemmeno se è vivo». Scatta, immediata, la controffensiva: «Ex On. De Mita, sono vivo, sono vivo! E io conto e nessuno mi ha mai preso a calci nel c...! Mentre Lei non conta un c...!». Intendendo un cavolo, ovviamente.
Invece nello spettacolo e nella cultura, mondi di individualisti, ognuno combatte per sé contro il resto del mondo. Nella «mala senectute» difficilmente si trova una parola buona per qualcuno. Ecco il catalogo di Franco Zeffirelli, 86 anni: «Il cinema italiano? Nulla dell’ultima generazione mi piace»; «il movimento gay mi ha sempre fatto schifo»; «Di Pietro è un uomo di quart’ordine, parla come un venditore di montoni della Ciociaria».
Più in generale, per l’83enne Dario Fo l’Italia è invece «un paese sul baratro. in atto, ora e qui, una trasformazione violenta della nostra natura, un capovolgimento antropologico, una corruzione storica». E se Pippo Baudo urla che la tv di oggi «è spesso pessima» mentre si offre di fare il direttore artistico al Festival di Sanremo, a scavare una parola buona si trova: quella del 71enne Adriano Celentano. Rivolta però alla moglie: «Chi ama la musica non può fare a meno di Xfactor». La trasmissione dove Claudia Mori è ospite fissa.
Un plotone variamente assortito è formato dagli espatriatori di professione. Quelli che sentono «puzza di regime» e annunciano l’emigrazione verso più democratici paesi, «se governa Berlusconi» (Umberto Eco, classe 1932) ma anche D’Alema (Giorgio Forattini, 1931). Almeno il loro avviso è periodico. C’è uno scrittore, invece, che manifesta una coazione a ripetere, meccanica. Sarà perché i suoi ultimi libri vanno così così da tempo, e la visibilità conta, ma a ogni vigilia di elezioni Vincenzo Consolo proclama solenne la sua storica ed epica fuga «per colpa della Lega». Però l’Italia non la lascia mai. E nemmeno Milano.
C’è poi chi non si rassegna a vedere perduta la sua nicchia di potere. L’irruenza del 78enne cardinale Camillo Ruini risulta accentuata dopo la privazione dello scettro di capo dei vescovi italiani. L’ultima del prelato è la scomunica civile ai cattolici impegnati in politica che non lasciano i partiti «dove non c’è spazio per i valori della Chiesa». Amen.
Il buonismo rancoroso non dà meno fastidio. Come quello battezzato dal cardinale Carlo Maria Martini, nato nel 1927, arcivescovo di Milano per 22 anni e candidato al trono pontificio assegnato poi a Joseph Alois Ratzinger. Un tradizionalista. Per reazione il cardinale è divenuto ancor più modernista. Tanto da chiedere di rivedere, in sintesi: «L’atteggiamento della Chiesa verso i divorziati; la nomina dei vescovi; il celibato dei preti; il ruolo del laicato cattolico; i rapporti tra la gerarchia ecclesiastica e la politica». E con chi parla di queste cose, certo non marginali, Martini? Con i suoi colleghi, i suoi fedeli, la sua perpetua? No, con Eugenio Scalfari, classe 1924, fondatore della Repubblica, un laico. Che però ama sermoneggiare. E che col tempo, pure lui un tempo serio ma godurioso, s’è fatto serioso e tormentato. Persino sfuggente. Il 1° novembre 2009, pur di aggirare il commento sulla sconfitta alle primarie del «suo» candidato Dario Franceschini, s’è messo a imitare Martini: «Con la vecchiaia» scrive «ci si effonde nell’amore. Quando questo avviene, l’io non è solo, non è denudato, non è disperato, anzi è più ampio e più ricco. Non ha nessun bisogno di chiamarsi e di sentirsi io ma si sente noi e quella è la sua ricchezza».
Sostiene Enrico Vaime: «Tra noi anziani ci sono due correnti principali. La prima è composta dai Distratti: restano sempre uguali a loro stessi e vivono nell’eterno presente delle bambole. Poi ci sono i Coscienziosi, che hanno cioè coscienza del tempo che passa: registrano un peggioramento del carattere e la perdita di qualche amicizia. Questa corrente serve meno a loro e agli altri: è meglio essere superficialoni, eterni ragazzi, vitelloni, giovanilisti anche».
Vaime, scrittore e conduttore, è uno dei più celebrati autori televisivi, teatrali e radiofonici italiani. Di anni ne conta quasi 74 e la sua verve è rimasta uguale a quella del debutto, nel lontano 1960. Anche a costo di mentire. questo il titolo della sua autobiografia. Nella quale si parla pure di gentil sesso. «Perché molti uomini cercano l’amore giovane? Perché è banalmente meglio. Ma non è questo tipo di maschio a incuriosirmi, bensì quello che scopre tardi le donne in generale. Somiglia agli studenti che vanno negli istituti privati per il recupero anni scolastici. Chi ha svolto studi regolari il recupero non lo fa: è comunque una pezza a colori».
Succede infatti sempre più spesso che uomini in là con gli anni stiano con donne assai giovani. Racconta però Paola Severini, briosa giornalista 50enne, innamoratissima sposa del 79enne Piero Melograni, storico e scrittore: «Piero ho dovuto conquistarlo io, dopo che per una vita ha fatto strage di cuori. Lui e i suoi amici si divertono come matti, più di tanti giovani e dei loro coetanei rancorosi». Fuori i nomi: «Casa nostra la frequentano Antonio Ghirelli, Raffaele La Capria, Arrigo Levi, Arnoldo Foà». Per dirla alla Vaime, la meglio gioventù della corrente dei Distratti, i meno interessati alla carriera da senatore a vita modello Rita Levi Montalcini. «Ma quale rancore, sono sempre rimasti uguali a loro stessi» replica Severini. «Su cosa dovrebbero grugnire? Sulla loro felicità?». E Melograni dal salotto dice: «Qualche malinconia mi capita, ma il rancore proprio no. Evidentemente alcuni ce l’hanno col mondo perché vivono di rimpianti».
Il caso più recente di amore senile riguarda Giovanni Sartori, eminente politologo ed editorialista del Corriere della sera, che nell’autunno 2008, alla veneranda età di 84 anni, si è fidanzato con la fotografa e artista italiana Isabella Gherardi, più giovane di quasi quarant’anni. Un amore che gli ha disteso certamente i tratti del viso, non altrettanto quelli del carattere. Anzi.
Sartori è uno che, pubblicamente, in televisione, si permette di definire «due cretini irresponsabili» (testuale) Walter Veltroni e Massimo D’Alema. Quanto a Berlusconi, tra le tante gentilezze ad personam, eccone una meno nota: «Il Popolo della libertà è una fedele massa clientelista. Tutti vivono sulle spalle del leader: Papi dà loro la pappa».
Rimane la sentenza di François La Rochefoucauld: «Pochi sanno essere vecchi». Era ancora la metà del XVII secolo. Ma certe cose non cambiano mai.