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 2009  novembre 29 Domenica calendario

Il Tribunale di Milano si prepara a emettere una sentenza che potrebbe costituire una pietra miliare nel diritto di In­ternet e costringere il re della rete, Google, a correggere il suo modello di business aperto e, oggi, irresponsabile

Il Tribunale di Milano si prepara a emettere una sentenza che potrebbe costituire una pietra miliare nel diritto di In­ternet e costringere il re della rete, Google, a correggere il suo modello di business aperto e, oggi, irresponsabile. Mercoledì 25 novembre i pm Francesco Cajani e Alfredo Robledo hanno pronunciato la requisitoria. Il processo ha origi­ne dalla querela depositata il 9 novembre 2006 dall’Associazione Vivi Down in merito a un video che riprendeva le umilianti an­gherie di alcuni ragazzi contro un compagno di scuola handicap­pato. Il filmino è apparso sul sito htpp://video.google.it nella se­zione «video divertenti». Le immagini sono rimaste online abba­stanza a lungo da essere visualizzate 5.500 volte ed entrare così nella classifica dei 100 video più scaricati, al 29esimo posto, pri­ma di essere rimosse. La censura è stata fatta da Google, ma solo su ordine della polizia avvisata dall’Associazione a sua volta mo­bilitata da un cittadino, Alessandro D’Amato, che prima aveva invano segnalato la cosa allo stesso Google e poi ne aveva scritto sul suo blog. Questa clamorosa violazione della privacy fa emergere l’ambi­guità di una multinazionale che reagisce raccontandosi in modi diversi a seconda dell’interlocutore. Al popolo degli internauti Google si mostra come il campione del mondo free , dove tutto è libero e gratuito. Alla stampa e alla Borsa come un motore di ricerca attrezzato per contrastare gli abusi, nel rispetto delle leggi di ogni Paese. Agli inserzionisti come un editore innovativo che, con il programma AdWords, con­sente di raggiungere il cliente po­tenziale con costi legati alla per­formance. Ma di fronte alla magi­stratura Google nega l’interesse economico di Google Video per non doversi riconoscere editore con le conseguenti responsabili­tà, salvo dover ammettere il fine del lucro davanti alle evidenze. E cerca di disconoscere la giuri­sdizione italiana a carico dei legali rappresentanti di Google Italy. Fanno tutto a Mountain View, ripete: ci si informi per roga­toria e magari ci si giudichi in base alla legge californiana. Quattro verità sono troppe per essere tutte buone. A naso la più credibile è quella legata al quattrino. Le altre sembrano di comodo. E allora non si capisce perché in un giornale, in una tv o anche in un sito registrato debbano rispondere sul piano pena­le e civile delle violazioni della legge sia l’autore del servizio che il direttore responsabile coperti dall’editore, mentre su Google Video, piattaforma editoriale di autori vari e un padrone solo adattata ai diversi Paesi, non debba rispondere nessuno. Certo, controllare costa. Non basta la persona a ciò preposta a Dublino. Google spende molto in uomini e mezzi per scannerizzare i libri e fare la Biblioteca universale dai cui si attende adeguati ricavi. Potrebbe farlo anche per evitare che gli imbecilli o i malvagi usi­no i suoi servizi per colpire i più deboli. Guadagnerà meno? Pa­zienza. Il Tribunale di Milano può porre un vincolo che aiuterà Google a diventare migliore. Come tanti anni fa la legge sulla giornata di lavoro di 8 ore costrinse le industrie a reinventarsi per recuperare quanto avevano dovuto sacrificare alla civiltà.