Cecilia Zecchinelli, Corriere della Sera 29/11/2009, 29 novembre 2009
ABU DHABI, L’EMIRATO CHE INVESTE IN CULTURA
Bocche cucite nella capitale degli Emirati Arabi Uniti su come e per quanto Abu Dhabi interverrà nell’aiutare le disastrate finanze del vicino Dubai. «Sceglieremo caso per caso», si limitano a dire fonti ufficiose, confermando che un sostegno è inevitabile, sia per garantire la solidità della federazione, sia per l’alta esposizione verso lo Stato fratello travolto da decine di miliardi di debiti e ormai privo (o quasi) del petrolio che fa invece di Abu Dhabi il terzo Paese al mondo per reddito pro capite. Bocche cucite anche sul «modello » scelto da anni a Dubai: quel mix di Wall Street e di Disneyland non è mai stato gradito, né tanto meno seguito, in questa città. E se il tradizionale riserbo delle monarchie del Golfo, unito a motivi politici, impone il silenzio ufficiale, la disapprovazione è ampia e palpabile. «Loro sono sempre stati ben più famosi di noi, ma solo per grattacieli e isole artificiali, facili commerci e grandi masse, weekend di addio al celibato e shopping a buon mercato, con i risultati che adesso vediamo», ci dice un funzionario del governo, che chiede l’anonimato. E Lawrence Franklin, consulente strategico di Abu Dhabi, aggiunge: «Qui sono rimasti inalterati valori tradizionali come il rispetto e il riserbo, la mancanza di ostentazione, l’attaccamento alla cultura del passato e alla qualità. su questo che stiamo puntando, a differenza di altri». Ulteriore, ovvio accenno – un po’ da primi della classe – all’emirato oggi sull’orlo del fallimento, già sostenuto una prima volta, mesi fa, con 15 miliardi di dollari concessi attraverso la Banca centrale.
Piena disponibilità a parlare si incontra invece, ovunque, sulla Grande Svolta che è ormai iniziata ad Abu Dhabi. Ovvero sul suo Rinascimento Culturale. Termine forse un po’ ambizioso ma che in fondo ben descrive la rivoluzione che punta a trasformare la piccola petro-monarchia (il 10% del greggio mondiale è qui) in «centro mondiale per la tecnologia e la cultura, meta turistica d’élite, residenza modello». Primo esempio nella regione e forse nel mondo di una trasformazione radicale pianificata a tavolino per volere reale e messa in opera (qui l’opposizione non esiste) in tempi rapidi e senza risparmi.
Basta girare qualche giorno per l’emirato (il territorio è due volte e mezzo la Sicilia, quasi tutto desertico) per rendersi conto che non sono solo parole. Nell’isola di Yas pochi mesi fa c’era solo sabbia. Oggi sorge il nuovo circuito di Formula 1 e un enorme complesso che a regime (la Ferrari ha confermato ieri che il suo parco tematico verrà inaugurato nel 2010) sarà costato 40 miliardi di euro, 1,6 milioni di metri cubi di terra spostati, 225 mila di cemento costruiti. Poco più a ovest, decine di gru e migliaia di operai lavorano da mesi per costruire qualcosa di ancora più ambizioso (e non solo nel nome): Saadiyat, l’Isola della felicità, il «più grande distretto culturale del mondo » con cinque importanti musei, compresi un Louvre e un Guggenheim, dal costo di almeno 27 miliardi di dollari. Più o meno lo stesso investimento è previsto per Masdar City, la città tecnologica in pieno deserto disegnata da Foster e con la collaborazione del Mit di Boston dove tutto dipenderà dalle energie alternative: ospiterà 50 mila persone, centri di ricerca, università. Nelle acque del Golfo, l’isola di Sir Beni Yas, finora accessibile solo alla famiglia reale, è appena diventata una «riserva naturalistica » per cittadini e turisti «eco-consapevoli» (e ben paganti). E la lista potrebbe continuare.
«Siamo stati benedetti da una rara abbondanza di idrocarburi ma questo non creerà ricchezza in eterno. Dobbiamo diversificare lo sviluppo economico, preservando la nostra tradizione culturale e l’ambiente», ripete spesso Sheikh Khalifa bin Zayad Al Nahyan, emiro di Abu Dhabi e presidente dell’Unione creata nel 1971 dai sette staterelli dell’ex Costa dei Pirati, a cui fa capo tra l’altro il fondo sovrano più ricco del mondo (875 miliardi di dollari). Il corposo documento «Piano Abu Dhabi 2030, una visione», coordinato dal principe ereditario Sheikh Mohammad e accessibile a tutti su Internet, spiega quale sarà il futuro dell’emirato in quell’anno, quando la popolazione raddoppierà a tre milioni, un terzo dei quali (come oggi) discendenti dai poveri pescatori di perle che una volta abitavano qui.
«Abu Dhabi non ha mai bruciato le rendite petrolifere degli anni ”70 e ”80, non si è buttata in speculazioni finanziarie o immobiliari, è forse il solo Paese del Golfo che non ha mai smesso di investire», sostiene Mubarak Al Muhairi, direttore generale della potente Abu Dhabi Tourist Authority. «I nostri leader hanno sempre avuto una visione a lungo termine, anche questa cosa rara nella regione, scegliendo ad esempio di non nazionalizzare il settore energia ma stringendo alleanze e accordi con l’Occidente. Strategia che viene confermata dal Rinascimento Culturale». «In realtà lanciare il nuovo brand
di Abu Dhabi non è stato facile – dicono Al Muhairi e i suoi consulenti stranieri ”. Qui non ci sono piramidi ma sabbia e mare. Ma ci stiamo riuscendo, e senza importare acriticamente cultura occidentale come qualcuno sostiene, solo know how ». Le polemiche scoppiate in Francia quando il Louvre ha concesso per la prima volta il suo nome (e molte collezioni in prestito) in cambio di 1,3 miliardi di dollari vengono respinte in toto. «Le intese con il Louvre, il Guggenheim e il British Museum, come molte altre, creeranno un ponte tra civiltà e culture. Renderanno Abu Dhabi un posto estremamente piacevole, interessante e universale », dice Paul Fairweather, un altro consulente. Negli ipermeticolosi progetti del governo, a voler vivere qui saranno almeno due milioni di stranieri nel 2030. E poi migliaia di studenti e ricercatori di ogni Paese a Masdar City, alla Sorbona (arrivata tre anni fa), alla New York University (che presto aprirà). I visitatori a Saadiyat almeno 2,3 milioni all’anno dal 2012, quando apriranno i musei. Un piano audace, che qualcuno si domanda quanto potrà realizzarsi in una terra quasi disabitata fino a pochi decenni fa, ancora oggi poco turistica e solo in parte prescelta dal business internazionale. Gli uffici chiusi e le case invendute di Dubai, poco lontano, sono un campanello d’allarme. «Ma qui è diverso, niente è lasciato all’improvvisazione – dicono tutti ”. E non abbiamo fretta». Intanto, solo pochi giorni fa, la Cnn ha aperto la sua prima sede ad Adu Dhabi. Anche in un momento di tagli di costi e calo negli ascolti, il network di notizie pensa che da Abu Dhabi ci sarà molto da dire.
Cecilia Zecchinelli
ABU DHABI – «Nel 1992, quando sono arrivato nel Golfo, Abu Dhabi era un posto piacevole e tranquillo, quasi sonnolento, non c’era niente tranne fiumi di petrolio. Ma l’arrivo al potere dell’attuale emiro ha dato il via dal 2004 a una svolta del tutto unica». Da Dubai Simon Williams, chief economist per il Medio Oriente del colosso Hsbc, si dice convinto che l’ambizioso «Rinascimento culturale» lanciato dal 63enne Sheikh Khalifa bin Zayed Al Nahyan non sia un «passatempo da miliardario» ma vada nella direzione giusta. E che quanto sta succedendo a Dubai «non avrà effetti duraturi nè significativi su Abu Dhabi».
Perché investire decine di miliardi in musei, ecologia, città tecnologiche, sport? Per prepararsi all’era post-petrolifera?
«Non ancora, quando produci 2 milioni e un quarto di barili al giorno puoi star certo che il tuo petrolio durerà moltissimo e resterà parte massiccia della tua economia. Ma Abu Dhabi sa benissimo che i prezzi del greggio oggi sono a 80 dollari, domani possono andare a 10. E allora diversificare è giusto, stanno provandoci tutti con vari risultati. L’unicità di Abu Dhabi sta nell’aver individuato la totale mancanza di un centro culturale nella regione e di aver deciso di puntare pesantemente su questa nuova industria, ad alta intensità occupazionale mentre quella petrolifera è capital-intensive » .
Ma gli abitanti di Abu Dhabi sono da sempre pochissimi, un motivo della loro ricchezza e del loro ingente fondo sovrano.
«Fino a recentemente Abu Dhabi era molto simile per natura e sistema politico ai suoi vicini produttori ed essere in pochi ha certo aiutato. Ad esempio in Arabia Saudita, dove c’è anche un problema occupazionale, il pil pro capite è un quarto di quello dell’emirato. Ma ora Abu Dhabi sta facendo le cose con molta serietà, la nuova generazione per la prima volta ha un’alta istruzione, con studi anche all’estero, e una forte determinazione. Tutti i progetti più importanti, come il circuito di Formula 1, sono stati terminati in tempo perché l’emirato sa di essere osservato dal mondo in una fase in cui sta puntando a conquistare un nuovo ruolo internazionale. Non ci sono stati ritardi nonostante la crisi».
Quanto è colpita Abu Dhabi?
«Gli effetti della crisi internazionale si sono sentiti per sei mesi, siamo già fuori, cosa che non si poteva dire nemmeno la settimana scorsa per Dubai. La nuova crisi in quest’ultimo emirato, il cui sviluppo sarà molto colpito, non cambia granché per Abu Dhabi che resta ricchissimo e solo ora sta diventando ’adulto’. Dobbiamo aspettarci cambiamenti enormi».
C.Zec.