Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  novembre 29 Domenica calendario

ABU DHABI, L’EMIRATO CHE INVESTE IN CULTURA


Bocche cucite nella capitale degli Emirati Arabi Uniti su come e per quanto Abu Dhabi inter­verrà nell’aiutare le disastrate finan­ze del vicino Dubai. «Sceglieremo ca­so per caso», si limitano a dire fonti ufficiose, confermando che un soste­gno è inevitabile, sia per garantire la solidità della federazione, sia per l’al­ta esposizione verso lo Stato fratello travolto da decine di miliardi di debi­ti e ormai privo (o quasi) del petro­lio che fa invece di Abu Dhabi il ter­zo Paese al mondo per reddito pro capite. Bocche cucite anche sul «mo­dello » scelto da anni a Dubai: quel mix di Wall Street e di Disneyland non è mai stato gradito, né tanto me­no seguito, in questa città. E se il tra­dizionale riserbo delle monarchie del Golfo, unito a motivi politici, im­pone il silenzio ufficiale, la disappro­vazione è ampia e palpabile. «Loro sono sempre stati ben più famosi di noi, ma solo per grattacieli e isole ar­tificiali, facili commerci e grandi masse, weekend di addio al celibato e shopping a buon mercato, con i ri­sultati che adesso vediamo», ci dice un funzionario del governo, che chiede l’anonimato. E Lawrence Franklin, consulente strategico di Abu Dhabi, aggiunge: «Qui sono ri­masti inalterati valori tradizionali come il rispetto e il riserbo, la man­canza di ostentazione, l’attaccamen­to alla cultura del passato e alla qua­lità. su questo che stiamo puntan­do, a differenza di altri». Ulteriore, ovvio accenno – un po’ da primi della classe – all’emirato oggi sul­l’orlo del fallimento, già sostenuto una prima volta, mesi fa, con 15 mi­liardi di dollari concessi attraverso la Banca centrale.

Piena disponibilità a parlare si in­contra invece, ovunque, sulla Gran­de Svolta che è ormai iniziata ad Abu Dhabi. Ovvero sul suo Rinasci­mento Culturale. Termine forse un po’ ambizioso ma che in fondo ben descrive la rivoluzione che punta a trasformare la piccola petro-monar­chia (il 10% del greggio mondiale è qui) in «centro mondiale per la tec­nologia e la cultura, meta turistica d’élite, residenza modello». Primo esempio nella regione e forse nel mondo di una trasformazione radica­le pianificata a tavolino per volere re­ale e messa in opera (qui l’opposizio­ne non esiste) in tempi rapidi e sen­za risparmi.

Basta girare qualche giorno per l’emirato (il territorio è due volte e mezzo la Sicilia, quasi tutto deserti­co) per rendersi conto che non sono solo parole. Nell’isola di Yas pochi mesi fa c’era solo sabbia. Oggi sorge il nuovo circuito di Formula 1 e un enorme complesso che a regime (la Ferrari ha confermato ieri che il suo parco tematico verrà inaugurato nel 2010) sarà costato 40 miliardi di eu­ro, 1,6 milioni di metri cubi di terra spostati, 225 mila di cemento costru­iti. Poco più a ovest, decine di gru e migliaia di operai lavorano da mesi per costruire qualcosa di ancora più ambizioso (e non solo nel nome): Saadiyat, l’Isola della felicità, il «più grande distretto culturale del mon­do » con cinque importanti musei, compresi un Louvre e un Guggenhe­im, dal costo di almeno 27 miliardi di dollari. Più o meno lo stesso inve­stimento è previsto per Masdar City, la città tecnologica in pieno deserto disegnata da Foster e con la collabo­razione del Mit di Boston dove tutto dipenderà dalle energie alternative: ospiterà 50 mila persone, centri di ri­cerca, università. Nelle acque del Golfo, l’isola di Sir Beni Yas, finora accessibile solo alla famiglia reale, è appena diventata una «riserva natu­ralistica » per cittadini e turisti «eco-consapevoli» (e ben paganti). E la lista potrebbe continuare.

«Siamo stati benedetti da una rara abbondanza di idrocarburi ma que­sto non creerà ricchezza in eterno. Dobbiamo diversificare lo sviluppo economico, preservando la nostra tradizione culturale e l’ambiente», ri­pete spesso Sheikh Khalifa bin Za­yad Al Nahyan, emiro di Abu Dhabi e presidente dell’Unione creata nel 1971 dai sette staterelli dell’ex Costa dei Pirati, a cui fa capo tra l’altro il fondo sovrano più ricco del mondo (875 miliardi di dollari). Il corposo documento «Piano Abu Dhabi 2030, una visione», coordinato dal princi­pe ereditario Sheikh Mohammad e accessibile a tutti su Internet, spiega quale sarà il futuro dell’emirato in quell’anno, quando la popolazione raddoppierà a tre milioni, un terzo dei quali (come oggi) discendenti dai poveri pescatori di perle che una volta abitavano qui.

«Abu Dhabi non ha mai bruciato le rendite petrolifere degli anni ”70 e ”80, non si è buttata in speculazio­ni finanziarie o immobiliari, è forse il solo Paese del Golfo che non ha mai smesso di investire», sostiene Mubarak Al Muhairi, direttore ge­nerale della potente Abu Dhabi Tou­rist Authority. «I nostri leader han­no sempre avuto una visione a lun­go termine, anche questa cosa rara nella regione, scegliendo ad esem­pio di non nazionalizzare il settore energia ma stringendo alleanze e accordi con l’Occidente. Strategia che viene confermata dal Rinasci­mento Culturale». «In realtà lanciare il nuovo brand

di Abu Dhabi non è stato facile – di­cono Al Muhairi e i suoi consulenti stranieri ”. Qui non ci sono pirami­di ma sabbia e mare. Ma ci stiamo riuscendo, e senza importare acriti­camente cultura occidentale come qualcuno sostiene, solo know how ». Le polemiche scoppiate in Francia quando il Louvre ha concesso per la prima volta il suo nome (e molte col­lezioni in prestito) in cambio di 1,3 miliardi di dollari vengono respinte in toto. «Le intese con il Louvre, il Guggenheim e il British Museum, co­me molte altre, creeranno un ponte tra civiltà e culture. Renderanno Abu Dhabi un posto estremamente piacevole, interessante e universa­le », dice Paul Fairweather, un altro consulente. Negli ipermeticolosi pro­getti del governo, a voler vivere qui saranno almeno due milioni di stra­nieri nel 2030. E poi migliaia di stu­denti e ricercatori di ogni Paese a Masdar City, alla Sorbona (arrivata tre anni fa), alla New York Universi­ty (che presto aprirà). I visitatori a Saadiyat almeno 2,3 milioni all’anno dal 2012, quando apriranno i musei. Un piano audace, che qualcuno si domanda quanto potrà realizzarsi in una terra quasi disabitata fino a po­chi decenni fa, ancora oggi poco turi­stica e solo in parte prescelta dal bu­siness internazionale. Gli uffici chiu­si e le case invendute di Dubai, poco lontano, sono un campanello d’allar­me. «Ma qui è diverso, niente è la­sciato all’improvvisazione – dicono tutti ”. E non abbiamo fretta». In­tanto, solo pochi giorni fa, la Cnn ha aperto la sua prima sede ad Adu Dha­bi. Anche in un momento di tagli di costi e calo negli ascolti, il network di notizie pensa che da Abu Dhabi ci sarà molto da dire.

Cecilia Zecchinelli


ABU DHABI – «Nel 1992, quando sono arrivato nel Golfo, Abu Dhabi era un posto piacevole e tran­quillo, quasi sonnolento, non c’era niente tranne fiumi di petrolio. Ma l’arrivo al potere dell’attuale emiro ha dato il via dal 2004 a una svolta del tutto unica». Da Dubai Simon Williams, chief economist per il Medio Oriente del colosso Hsbc, si dice con­vinto che l’ambizioso «Rinascimento culturale» lanciato dal 63enne Sheikh Khalifa bin Zayed Al Nahyan non sia un «passatempo da miliardario» ma vada nella direzione giusta. E che quanto sta succedendo a Dubai «non avrà effetti duraturi nè significativi su Abu Dhabi».

Perché investire decine di miliardi in musei, ecologia, città tecnologiche, sport? Per preparar­si all’era post-petrolifera?

«Non ancora, quando produci 2 milioni e un quarto di barili al giorno puoi star certo che il tuo petrolio durerà moltissimo e resterà parte massic­cia della tua economia. Ma Abu Dhabi sa benissi­mo che i prezzi del greggio oggi sono a 80 dollari, domani possono andare a 10. E allora diversificare è giusto, stanno provandoci tutti con vari risultati. L’unicità di Abu Dhabi sta nell’aver individuato la totale mancanza di un centro culturale nella regio­ne e di aver deciso di puntare pesantemente su questa nuova industria, ad alta intensità occupazio­nale mentre quella petrolifera è capital-intensive » .

Ma gli abitanti di Abu Dhabi sono da sempre pochissimi, un motivo della loro ricchezza e del loro ingente fondo sovrano.

«Fino a recentemente Abu Dhabi era molto si­mile per natura e sistema politico ai suoi vicini produttori ed essere in pochi ha certo aiutato. Ad esempio in Arabia Saudita, dove c’è anche un pro­blema occupazionale, il pil pro capite è un quarto di quello dell’emirato. Ma ora Abu Dhabi sta fa­cendo le cose con molta serietà, la nuova genera­zione per la prima volta ha un’alta istruzione, con studi anche all’estero, e una forte determinazio­ne. Tutti i progetti più importanti, come il circui­to di Formula 1, sono stati terminati in tempo per­ché l’emirato sa di essere osservato dal mondo in una fase in cui sta puntando a conquistare un nuovo ruolo internazionale. Non ci sono stati ri­tardi nonostante la crisi».

Quanto è colpita Abu Dhabi?

«Gli effetti della crisi internazionale si sono sen­titi per sei mesi, siamo già fuori, cosa che non si poteva dire nemmeno la settimana scorsa per Du­bai. La nuova crisi in quest’ultimo emirato, il cui sviluppo sarà molto colpito, non cambia granché per Abu Dhabi che resta ricchissimo e solo ora sta diventando ’adulto’. Dobbiamo aspettarci cambia­menti enormi».

C.Zec.