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 2009  novembre 28 Sabato calendario

Profumato, la barba e le unghie cu­rate, i piedi nudi nei sandali di soffice pelle di cammello esposti alla gelida aria condizionata

Profumato, la barba e le unghie cu­rate, i piedi nudi nei sandali di soffice pelle di cammello esposti alla gelida aria condizionata. Soprannominato «lo sceicco-Ceo». Capace di pronun­ciare frasi come questa: «Se Gordon Brown o Tony Blair vogliono veder­mi, ne sono felice. Ma per favore non portatemi una schiera di ministri! Per loro non ho tempo. Portatemi piutto­sto qualunque amministratore delega­to britannico. Per loro sì, il tempo ce l’ho».  un uomo così, scriveva «Newsweek» due anni fa, che spinge­va la comunità dei banchieri espatria­ti «a chiamarlo con ammira­zione Sheik Mo»: al secolo Mohammed bin Rashid al-Maktum, sovrano assolu­to ed ereditario di un emira­to oggi paragonabile (giusto finanziariamente) all’Argen­tina. Non lo si sarebbe mai immaginato, a leggere le più celebri testate di lingua in­glese anche solo pochi anni fa. Nel 2006, l’«Economist» spiegava che i «vantaggi» alla base del successo del centro finanziario di Dubai erano «la mano forte e le tasche profonde della famiglia regnante»; peccato allora che nelle tasche si agitassero soprattutto dei debiti e la «mano forte» fosse quel­la di un sovrano autoreferenziale e in­capace di render conto a chicchessia. Inclusi gli amministratori delegati bri­tannici i quali, leggendo quell’artico­lo, magari avevano rubato cinque mi­nuti del tempo dello sceicco-Ceo per prestargli alcuni miliardi: HSBC e Ro­yal Bank of Scotland restano le ban­che più esposte. Che dire allora dell’invaghimento di «Newsweek»? Dubai ha successo ­si legge a crisi dei «subprime» già esplosa - «perché è ben gestita e one­sta, in netto contrasto con quasi ogni altro governo nella regione». E c’è an­che da capirlo, se un semplice giornali­sta tradisce un simile entusiasmo: gli esperti avevano già analizzato, appro­fondito, spiegato. Uno studio della prestigiosa IMD, la business school in­ternazionale della Svizzera, ancora a metà 2007 mostrava che Dubai si piaz­zava davanti al Giappone e alla Germa­nia in fatto di «competitività economi­ca » e - precisiamo - anche di «efficien­za del governo». Quello stesso anno una classifica del World Economic Fo­rum, la culla della «superclasse» o éli­te globale, metteva ovviamente gli Emirati Arabi Uniti al vertice «nella re­gione ». Poco importa che gli emirati Dubai World Un gruppo di 15-20 investitori nel real-estate di Dubai avrebbero deciso di unire le forze si sarebbero presto dimostrati capaci di mettere il mondo a soqquadro con un’evitabilissima lite da cortile su un pugno di dollari di debiti. Possibile? No: inevitabile. La città verticale sul Golfo è quella di cui il «Guardian» si chiedeva (nel 2006) se per caso fosse avviata a diventare «il posto più importante del pianeta, co­me Londra nel 19 esimo secolo». Nel­l’esaltazione si era giunti a un punto in cui Dubai era diventata una sorta di genere giornalistico. Anglosassone sì, ma anche assolutamente italiano, fran­cese o tedesco. L’inviato arrivava, de­scriveva la vastità di ciò che aveva vi­sto, i rubinetti d’oro nella stanza d’al­bergo, la vasca per i pesci che compor­ta solo per il mangime «un budget di 300 milioni l’anno». Tornava e garanti­va («Time Magazine», 2006) che quel­la è esattamente l’«American way», perché lo sceicco «ha evitato il tipico stile del business familistico medio­rientale e ha insistito sugli standard occidentali di rendicontazione e tra­sparenza ». Insomma «Sheikh Mo l’ha proprio azzeccata» (George Makhoul, banchiere di Morgan Stanley). Va detto che, in parte, ci ha preso davvero: il porto, l’aeroporto, la logi­stica e magari anche la Borsa restano gioielli visionari. Ma il «New York Ti­mes » si è chiesto che senso avesse un posto in cui un manovale immigrato vive per legge in condizioni di se­mi- schiavitù. A nessuno invece è par­so strano, o contrario ai nostri presun­ti principi, che per attrarre ricchi pro­fessionisti occidentali nascessero spe­ciali isole del diritto solo per loro. Ma in fondo tutto questo fascino mediati­co faceva parte di un ingranaggio, chiamato «soft power» globale o repu­tazione, che non funziona solo con Du­bai. Ma a Dubai di più. Perché («Newsweek», 2006) «questo è il po­sto in cui il trionfo della globalizzazio­ne è stato più completo». Federico Fubini