vari da la Stampa e da Il Messaggero del 27/11/2009, 27 novembre 2009
VARI PEZZI SU DUBAI
(La Stampa e Il Messaggero del 27/11/2009)-
FRANCESCO SPINI PER LA STAMPA DEL 27/11/2009
Dubai-choc fa affondare tutte le borse -
Dubai sull’orlo del crac toglie il respiro alle Borse. La richiesta del governo dello sceicco Mohammed Bin Rashid Al Maktum di una moratoria di 6 mesi per i 59 miliardi di dollari di debiti che gravano sulla sua Dubai World, la holding finanziaria dell’emirato (che ha un rosso totale da 80 miliardi, incluso il sukuk di Nakheel da 3,52 miliardi), ha fatto ripiombare i listini europei (Wall Street era chiusa per il giorno del Ringraziamento, con i future in netta flessione...) nel clima di qualche mese fa, quando la crisi era ancora soprattutto finanziaria. La febbre del Golfo brucia così 152 miliardi di euro di capitalizzazione nel Vecchio Continente: Milano perde il 3,6%, -3,18% a Londra, -3,41% a Parigi, -3,25% a Francoforte. I timori che il sogno del mattone in mezzo al deserto, sbriciolandosi, possa trascinare con sé tutto il sistema Dubai - una ragnatela di prestiti e investimenti con l’occidente - colpisce soprattutto i settori delle costruzioni, assicurazioni e banche.
Gli istituti di credito, in particolare, pagano una sorta di effetto Lehman. La caccia alle banche più coinvolte con la Città-stato scatta fin dal mattino, da quando il Credit Suisse calcola in 40 miliardi di dollari l’esposizione degli istituti di credito europei. Che vengono subito dopo i due gruppi più esposti Abu Dhabi, e cioè la Commercial Bank e la Emirate Nbd. In Europa sono tante le banche (i creditori del Dubai World sono 70) ad aver avuto a che fare con l’emirato e i suoi progetti. C’è ad esempio Hsbc (qualcuno parla di 17 miliardi di investimenti), il Credit Suisse, Standard Chartered, Barclays, Lloyds e Royal Bank of Scotland. E ancora Citi, Bnp Paribas, Deutsche Bank, Ubs. Un club dunque, tra esposizioni grandi, piccole o solo ipotizzate, tutt’altro che ristretto. E che ieri ha pagato duramente con crolli fino all’8% e passa, nonostante nessuno abbia certificato la reale situazione. Scrive il Credit Suisse che le se la metà dell’esposizione stimata venisse persa gli accantonamenti per crediti inesigibili nel 2010 crescerebbero del 5%. In Italia ieri nessuna banca ha specificato la reale entità della propria esposizione verso l’emirato. Osservata speciale, senza che la cosa trovi riscontro ufficiale, è Intesa Sanpaolo (-4,11% a Piazza Affari) se non altro perché da agosto 2008 ha una filiale locale attiva nel corporate banking che avrebbe finanziato anche enti governativi. UniCredit (-4,85%) su Dubai World contabilizzerebbe invece un’esposizione «non rilevante». Se qualcosa ha brillato, ieri, sono stati i titoli di Stato tedeschi, verso cui gli investitori si sono spostati a caccia di sicurezza. Come mesi fa, appunto. Alle stelle, per contro, i credit default swap (i contratti a difesa di eventuali crac) non solo relativi a Dubai, ma anche di stati limitrofi come Bahrein e Abu Dhabi. Fiducia in caduta, dunque, mentre Standard & Poor’s mette sotto osservazione quattro banche dell’emirato e Moody’s taglia il giudizio su sei imprese governative della Città-stato.
Niente di buono per uno stato di cui, come ricorda il rappresentante locale dell’Ice, Francesco Alfonsi, «l’Italia è il secondo partner europeo e il settimo a livello mondiale». A Dubai ci sono 13 miliardi di euro di investimenti tricolori, «esportiamo qui più che in Giappone o in Brasile». Per questo si esorcizza il più possibile l’ipotesi del crack. «Saltare Dubai? Lo ritengo impossibile, al limite interverrà Abu Dhabi con il suo petrolio», scommette Piero Ricotti, presidente della Camera di Commercio italiana in quell’ex paradiso del mattone che terrorizza l’economia mondiale. Di nuovo.
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FABIO POZZO PER LA STAMPA DEL 27/11/2009
Otto progetti su dieci a corto d’ossigeno -
Qui tutti i progetti che non hanno un richiamo internazionale sono stati bloccati. Gli altri, quelli che rivestono un forte appeal per il marketing, sono stati sospesi o posticipati. Pochi anni fa sembrava una leggenda metropolitana la facilità con cui si vendeva tutto a Dubai. Adesso, sembra essere altrettanto una leggenda la crisi immobiliare. Ma è la verità».
L’architetto Maurilio Citterio, bergamasco, è uno degli italiani che ha scommesso su quella che è stata denominata la ”Wall Street del deserto”. Impegnato in prima linea nel ridisegnare la fisionomia della Dubai del futuro. il progettista di Falcon Bay, un’opera che sarebbe dovuta sorgere nell’ambito del Waterfront, un puzzle faraonico composto da un agglomerato di isole e canali artificiali che si dovrebbe sviluppare su una superficie di 1,4 miliardi di metri quadrati.
A Falcon Bay sarebbero dovuti sorgere i cloni di Portofino, Saint Tropez e Port Grimaud. Questo il sogno del promotore del progetto, un fondo internazionale con piedi alle Isole Vergini e capo nella Hmm Llc, la società che si rifà alla holding guidata dallo sceicco Manea bin Asher Al Maktoum (uno dei principi della famiglia reale) e che ha comprato il terreno dalla Nakheel, la società di costruzioni che oggi sta boccheggiando, soffocata dalle difficoltà finanziarie.
Nel caso di Falcon Bay e delle sue «copie» mediterranee, il disegno doveva essere completato entro cinque anni, per un investimento di circa 3,5 miliardi di euro. Ma il piano esecutivo ha subito una modifica. «In realtà, il nostro potrebbe essere portato ad esempio come un progetto simbolo. A differenza di altri, infatti, gode di attrattiva ed esclusività, tanto che non è stato bloccato, ma è ancora ”in progress”», spiega Citterio.
Sono «soltanto» cambiate le coordinate. «Il progetto era stato lanciato con il sostegno di investitori internazionali. Sono venuti meno, e così lo sceicco è stato costretto a riorganizzare gli asset. L’operazione è riuscita: è stata trovata la copertura finanziaria alternativa e sono state strette nuove alleanze, che prevedono però il trasferimento del progetto nel vicino Abu Dabhi, emirato che attualmente offre migliori garanzie di stabilità finanziaria rispetto a Dubai».
L’orizzonte del clone di Portofino, insomma, sembra essere sereno: c’è voluto un anno per riassettare la parte finanziaria, adesso i lavori - che sarebbero dovuti terminare il prossimo febbraio - ripartiranno entro la fine del 2010.
Non è così per altri progetti. The Palm, ad esempio, l’avveniristico e quasi visionario arcipelago artificiale composto da tre isole (Jumeirah, Jebel Ali, Deira) strappate al mare, a forma di palma, doveva essere definitivamente completato nel 2014. «Si va al 2018-2020», dice Citterio.
La corsa al mattone, insomma, se non s’è fermata, ha comunque frenato bruscamente. «Sì, ma questa crisi non viene dall’interno, quanto dall’esterno. Dubai risente della recessione mondiale, che ha fatto fare un passo indietro agli investitori internazionali che avevano scommesso sull’Emirato, finanziando circa l’80% dei progetti avviati. Da qui, il crollo dell’immobiliare. Se andiamo a vedere invece la parte produttiva di Dubai, l’export, ci si accorge che il Paese non si è fermato, a conferma della sua tenuta a livello strutturale».
Il discorso è diverso, invece, per Abu Dhabi, capitale degli Emirati Arabi Uniti, considerata la città più ricca del pianeta grazie all’enorme patrimonio petrolifero che possiede. «Può contare su una finanza locale, o comunque legata all’area del Medio Oriente, ancora florida».
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DA LA STAMPA DEL 27/11/2009
Il titolo London Stock Exchange a-7,2%
Non foss’altro per il suo passato coloniale a Dubai - il 2 dicembre saranno festeggiati i 38 anni di indipendenza dall’Inghilterra - Londra ha subito forte il contraccolpo della crisi che ha colpito il principale conglomerato finanziario dell’emirato, Dubai World. In particolare, oltre alle banche sospettate di alte esposizioni verso la Città-stato, ha sofferto il London Stock Exchange, la Borsa londinese che, a sua volta, controlla Borsa Italiana. Il titolo del mercato britannico, quotato sul suo stesso listino, ieri ha perso il 7,2%, segnando così il peggior ribasso da aprile. L’attenzione degli investitori si è focalizzata sulla quota del 22% detenuta dalla Borsa di Dubai che ora, viste le difficoltà finanziarie, potrebbe essere ceduta, redendo così meno «araba» anche Piazza Affari.
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FRANCESCO MANACORDA PER LA STAMPA DEL 27/11/2009
L’EMIRATO DEL MATTONE TRA RETI ANTICAMMELLO E GRATTACIELI DA RECORD
Ecco, qui a destra vedete la Francia, quasi completata, più avanti la Germania. E là stanno costruendo la Svizzera». La giornata non era un granché e sotto un sole spento il mare del Golfo evocava immagini petrolifere più che balneari, ma - viste dalla lancia con motore da 300 cavalli cortesemente messa disposizione dal colosso edilizio Nakheel - le magnifiche sorti di «The World» sembravano scolpite nella pietra e non costruite sulla sabbia. Invece proprio di sabbia si trattava, sparata a tonnellate da speciali cannoni galleggianti davanti alla spiaggia di Jumeirah per creare l’ennesimo arcipelago artificiale nell’Emirato dei sogni, pronto a soddisfare le voglie vacanziere di una clientela globale fatta anche, ma non solo, di ricchi e famosi. Nel marzo 2008 la crisi dei «subprime» Usa bussava già alle porte di tutto il mondo, ma a Dubai si ostentava sicurezza. «Qui la crisi non fa paura», spiegava Maria Abdelrahman, manager dell’onnipresente Nakheel. E tra le trecento isole artificiali che ricomponevano - con più di una licenza geopolitica - l’intero planisfero, raccontava i successi del precedente «The Palm», l’arcipelago a forma per l’appunto di palmizio: «Abbiamo venduto tutto in 72 ore e chi ha comprato a 1,4 milioni di dollari oggi già rivende a 5 milioni».
Ancora ieri il sito di «The World» proclamava orgoglioso che «il 94% delle isole sono già emerse», ma la musica a Dubai è cambiata già da un po’ e quella corsa agli acquisti che appena due anni fa spingeva il mattone alla velocità della luce, si è fermata. All’epoca sui quotidiani in inglese e sulle riviste patinate per stranieri gli annunci immobiliari si contendevano lo spazio come i grattacieli sulla terraferma. Dal villaggio residenziale con annesse diciotto buche intitolato a Tiger Woods, alla torre sulla Marina di Dubai - là dove si ammassano oltre 250 grattacieli tutti assieme - intitolata a Boris Becker, la frenesia degli acquisti era tale che si cominciava a comprare quando si gettavano le fondamenta e poi si procedeva a suon di rate versate al completamento del terzo piano, del decimo, del ventesimo, del quarantesimo... Città degli eccessi - dalla pista da sci in mezzo al deserto citata forse più della Streif di Kitzbuhel, al Burj Dubai, l’albergo a forma di vela alto un chilometro che si fregia del titolo di più altro del mondo - ma anche degli accessi: 2,2 milioni i turisti registrati negli alberghi dieci anni fa, 5,8 milioni l’ultimo dato. Tra di loro anche molti italiani e molta Italia. Indimenticate, tra le altre le missioni nell’Emirato - 300 mila euro complessivi - dell’azienda municipale dei rifiuti di Palermo.
Adesso la richiesta di moratoria sul debito avanzata dalla Dubai World, la holding che controlla anche la Nakhhel e i suoi faraonici progetti di sviluppo immobiliare, spedisce i suoi brividi lungo i listini perchè dà corpo a due paure. La prima è che i ricchi e un po’ dimessi vicini di sempre - gli Emiri di Abu Dhabi seduti da decenni sul liquido petrolio assai più stabile del solido mattone - possano decidere che i debiti di Dubai non sono affar loro. La seconda è che di conseguenza, il grande importatore di europei, americani, asiatici in cerca di un «buen retiro» divenga improvvisamente un esportatore di crisi.
Crisi o non crisi, Dubai resta per molti il Paese dei balocchi nel deserto, a quattro ore di volo dall’Italia o 130 chilometri di trafficatissima autostrada a sei corsie - doverosamente fiancheggiata da reti anticammello - dalla ministeriale e un po’ grigia Abu Dhabi. E crisi o non crisi c’è da scommettere che anche questo Natale le crociere alla volta del Golfo - nomi non troppo fantasiosi come «Oro e incenso» o «Le mille e una notte» non partiranno vuote. Se poi si volesse provare ancora il piacere della Dubai esagerata la prima notizia è che ieri sera nella vela del Burj si trovava comodamente posto con qualche click su Internet. La seconda è che - sempre crisi o non crisi - la più spartana delle stanze costa comunque 7000 dirham, più o meno 1300 euro.
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FRANCO BRUNI PER LA STAMPA DEL 27/11/2009
Se nascono nuove bolle -
Le difficoltà finanziarie di Dubai rischiano di configurare un caso di grave insolvenza. Le ripercussioni internazionali possono mettere a tacere le fragili prospettive di ripresa sulle quali si esercita da qualche tempo l’ottimismo di non pochi operatori e politici. Oltre all’impatto diretto sulle banche creditrici, molte delle quali europee, il pericolo può diramarsi al sistema finanziario globale e a settori più o meno direttamente collegati all’economia degli emirati e al mondo immobiliare. Le Borse e i premi di assicurazione sui titoli di debito, compresi quelli «sovrani», cioè garantiti dai governi, hanno subito registrato la gravità del problema.
Il quale però non si limita alla potenziale diffusione del danno causato dal caso specifico di Dubai e dei suoi progetti in difficoltà. E’ vero che si tratta di un caso per molti versi particolare e davvero costruito sulla sabbia. Ma, per quanto gravi siano i suoi riflessi, limitandosi a guardarlo in sé e per sé si sottovaluta il significato di quanto sta succedendo. Lo scenario diventa più buio se il fatto di Dubai viene interpretato come un sintomo del permanere di squilibri e distorsioni nei mercati monetari e finanziari del mondo le cui malattie, emerse con la crisi cominciata nel 2007, sono ancor lungi dalla guarigione.
Purtroppo viene in mente che, per molti mesi, anche le gravi disavventure del mercato dei prestiti sub-prime americani sono state considerate un «caso particolare».
Un grave incidente con possibili conseguenze diffuse ma pur sempre un incidente specifico a quell’angolo del sistema economico-finanziario globale. E’ occorso molto tempo per capire che si trattava invece del sintomo di un vastissimo malessere radicato nell’eccesso di indebitamento dei più svariati tipi di operatori economici privati e pubblici, collocati un po’ dovunque nel mondo. Un incauto indebitamento incentivato da anni di politiche economiche imprudenti, soprattutto quelle monetarie, di carenze nelle regole dei mercati finanziari e nelle vigilanze delle autorità nazionali e internazionali. Il mondo non è stato contagiato da un virus fabbricato dagli ingegneri dei sub-prime: il mondo era già globalmente infetto e la crisi dei sub-prime era un sintomo.
Anche Dubai rischia di rendere più evidente quello che prima dicevamo in pochi ma negli ultimi tempi vanno dicendo in molti: che la crisi finanziaria iniziata nel 2007 è stata curata male e lentamente. Si è fatto troppo conto sulle iniezioni di liquidità e sui tassi di interesse superbassi. Gli intermediari e i mercati finanziari ne hanno approfittato per tornare a cercar rischi speculativi alimentati con fondi a basso costo. A questo atteggiamento, che ha gonfiato bolle di vario genere e spiega in parte notevole la ripresa dei corsi azionari e obbligazionari di questi ultimi mesi, va ricondotta anche la mancata cautela nei confronti dei pasticci di Dubai e delle autorità preposte a quella regione. Le iniezioni di liquidità e di debito pubblico e i tassi bassi dovevano servire a «comprare tempo» per fare le riforme delle regole e dei controlli finanziari, ristrutturare e ricapitalizzare banche e imprese, accelerare la centralizzazione regionale e mondiale della vigilanza finanziaria, rimettere le politiche macroeconomiche e l’economia mondiale su un sentiero di crescita più sostenibile. Sono passati due anni e mezzo dall’inizio della crisi e c’è un diffuso parlare di ripresa. Ma il processo di riforma, anche se ben abbozzato sul piano tecnico, stenta a trovare la forza politica e la cooperazione necessaria per venir messo in atto. Tutto è troppo lento, sta sparendo il senso dell’urgenza, il tempo comprato con la droga della liquidità a buon mercato e l’ingigantirsi dei deficit pubblici non viene usato con la dovuta intensità. Come ha osservato due settimane fa il presidente del Financial Stability Board, Mario Draghi, «il miglioramento della situazione accresce la forza dei gruppi di interesse che sono contrari a qualunque riforma sostanziale».
Bisognerebbe sperare che il guaio di Dubai rinfocoli la consapevolezza dell’urgenza di riforme, di nuove regole, di vertici internazionali più concreti nelle loro deliberazioni, di politiche economiche meno legate all’effimero miglioramento degli indici congiunturali. Ma ci sono due rischi. Il primo è che quel guaio ne faccia emergere altri, fabbricati in questo periodo di «ripresa» o residuati tossici rimasti nascosti dai tempi prima della crisi. Il secondo è che ci si limiti a reagire comprando ancora tempo con nuovi salvataggi, nuovi debiti, altra liquidità, tassi vicini allo zero per chissà quanto: che Dubai venga presentato come un incidente specifico in una piazza d’affari screditata, del quale occuparsi mettendo toppe a un sistema che non si fa toccare nella sostanza delle sue regole e dei suoi assetti di potere.
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ROSARIO DIMITO PER IL MESSAGGERO DEL 27/11/2009
Il rischio-debito di Dubai fa tremare le Borse mondiali -
Si sgancia da Dubai, uno dei sette Emirati Arabi, finora conosciuto come centro della ricchezza e dell’intraprendenza economica, una nuova mina sui mercati finanziari che bruciano in Europa in un solo giorno 170 miliardi. Solo a Milano sono andati in fumo 15 miliardi di euro. Dubai World, una holding di proprietà pubblica, oltre 50 mila dipendenti in 100 città del pianeta che possiede asset per 100 miliardi di dollari in campo immobiliare soprattutto, aeroportuale e trasporti, sparsi anche negli Usa, Regno Unito, Sud Africa, due sere fa ha annunciato lo stato di crisi perchè non riesce a pagare circa 59 miliardi di dollari (39,3 miliardi di euro) di debiti. Ma lo sceicco Ahmed ben Said Al Makroum rassicura: «L’economia è solida, la crescita senza precedenti dell’ultimo decennio, ha creato i fondamentali per un’economia durevole».
Negli investimenti più conosciuti rientra l’isola artificiale a forma di palma dove sorgono ville lussuose vendute a calciatori e personaggi del cinema. La holding, che ha ingaggiato Deloitte come consulente per ristrutturare le esposizioni, ha chiesto alle banche una moratoria di sei mesi, cioè congelare i crediti almeno fino al 31 maggio 2010. Le banche europee dovrebbero avere linee per circa 40 miliardi. La prima riunione con gli istituti creditori dovrebbe essere programmata per venerdì 4 dicembre, in quanto il giorno prima finisce la festività musulmana Eid ul-Fitr che per una settimana, segna la fine del Ramadan. La classifica dei creditori sarebbe guidata da Hsbc con 11,3 miliardi di euro, Standard Chartered (5,2 miliardi), Barclays (2,4 miliardi), Rbs (1,4 miliardi), Citi (1,2 miliardi), Bnp Paribas (1,1 miliardi), Lloyds (1 miliardo). Tra gli istituti esposti, secondo quanto risulta a Il Messaggero, ci sarebbero anche Unicredit e Intesa Sanpaolo con rischi limitati ad alcune decine di milioni a testa. Anche qualche altro istituto, tra quelli italiani maggiori, ha un rischio-paese con Dubai. Intesa ha aperto in questo Stato una filiale a metà del 2008 trasformando l’ufficio di rappresentanza: già la Comit, incorporata nel 2001, affidava la P & O, società di shipping di Dubai World. Unicredit ha un ufficio di rappresentanza tramite la controllata tedesca Hvb che fa parte però del piano-razionalizzazione delle sedi estere di piazza Cordusio. E col mondo arabo Unicredit ha rapporti: alla fine dello scorso anno cedette al fondo sovrano di Abu Dhabi il 3,3% di Atlantia e a gennaio 2009 lo stato fondo ha investito 56 milioni di euro nel bond ”cashes” a copertura dell’aumento di capitale da 3 miliardi. Forse non è casuale che il titolo di piazza Cordusio ieri abbia perso il 4,85% e quello di via Monte di Pietà il 4,10%. Nel ricco portafoglio partecipazioni di Dubai World figura anche Limitless, uno dei bracci immobiliari che fino a marzo scorso ha trattato con Risanamento l’acquisto dell’area ex Falck. Il fondo guidato dal sultano Ahmed bin Sulayem che presiede anche Dubai World, aveva offerto 475 milioni ma il negoziato si arenò perchè nel momento cruciale gli acquirenti si tirarono indietro pur avendo sottoscritto un contratto preliminare sottoposto ad alcune condizioni sospensive. Erano le prime avvisaglie di una crisi di liquidità scoppiata ferocemente in queste ore ma che i banchieri d’affari italiani che frequentano l’area dei petrodollari avevano avvertito da alcuni mesi. La bolla scoppiata a Dubai ha il suo epicentro nella Nakheel, una delle subholding immobiliari. In bilico oltre ai debiti con le banche c’è anche un bond islamico di 3,52 miliardi di dollari in scadenza il 14 dicembre contratto dalla Nakheel. La paura che si è prontamente propagata sui mercati di tutto il mondo (solo la Borsa di New York ieri era chiusa per i festeggiamenti del Thanksgiving Day) nasce dal timore che si possa ripetere l’effetto-domino di una crisi tipo quella americana dei subprime esplosa circa un anno e mezzo fa. Il governo di Dubai sta pagando il prezzo della paralisi del mondo immobiliare schiacciato da un debito di 80 miliardi di dollari, dei quali 70 facenti capo a imprese governative, quasi tutte del mondo delle costruzioni. Lo stato non avendo petrolio, ha tentato di diversificare gli investimenti proprio nell’immobiliare ma ora, a causa del crollo di circa il 47% del prezzo delle case, teme di andare a gambe all’aria. Per correre ai ripari all’inizio del 2009 il governo ha varato un programma di emissioni obblligazionarie da 20 miliardi, di cui 10 emessi a febbraio. E ieri lo Stato ha proceduto a emettere 5 miliardi di bond allo scopo di ripagare i 3,52 miliardi di obbligazioni in scadenza a metà dicembre: l’operazione sarà sottoscritta dalla National Bank of Abu Dhabi Pjsc e dalla Al Hilal Bank, due banche pubbliche. Il possibile crac di Dubai ha scosso i mercati. Il DJ Stoxx che fotografa i maggiori titoli europei, ha perso il 3,2%. Lse, la borsa di Londra che è posseduta al 21% da Dubai, ha ceduto il 7,2%. Tutti i titoli delle banche europee esposte, sono indietreggiati (Barclays dell’8%). A Milano l’indice Ftse All Share ha chiuso in perdita del 3,51%.
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ROBERTA AMORUSO PER IL MESSAGGERO DEL 27/11/2009
« solo un’eco della crisi. Non è un rischio sistemico»
Il rischio Dubai c’è. Può essere considerato un’appendice del capitolo crisi. Ma non è un rischio sistemico. Non ha i connotati per esserlo. Insomma, per Alessandro Fugnoli, strategist internazionale di Abaxbank, «siamo piuttosto di fronte a un’eco della crisi, non a una ricaduta».
La reazione delle Borse alle notizie che arrivano dagli Emirati Arabi devono fare temere un effetto a catena?
«E’ senz’altro il sintomo che i mercati hanno i nervi tesi. Molto tesi. E che dopo i recenti recuperi le Borse temono di essere care (ma non lo sono). In questo contesto, una notizia negativa, come un default, può essere letta come un indizio. Ma se poi si aggiungono altri indizi negativi, rischia anche di trasformarsi in una teoria».
Questo vuol dire che l’effetto Dubai, che ha creato scompiglio sui mercati, sarà circoscritto?
«Sì. E le ragioni sono diverse. In primo luogo, non c’è un rischio indistinto legato agli Emirati Arabi, visto che si tratta di vicende limitate a Dubai. Inoltre, non sembra ci siano banche americane esposte. E questo fa immaginare un più facile ritorno all’equilibrio da parte dei mercati».
Quindi anche per le Borse si è trattato di una tempesta passeggera oppure prevede tempi difficili in arrivo?
«L’assenza della bussola dei mercati Usa, chiusi per la festività del thanksgiving, ha finito per amplificare i timori su piazze finanziarie meno robuste. Ora è facile aspettarsi una fase laterale di correzione. Ma non si tratterà di una correzione profonda a patto che non intervengano altri eventi negativi».
Che legami ci sono tra la richiesta di moratoria di Dubai e la crisi degli ultimi due anni?
«E’ fisiologico che i default arrivino dopo che si è raggiunto il punto più basso della crisi. E in questo senso le vicende della holding statale di Dubai possono essere considerate un’eco della tempesta degli ultimi due anni. Ma è bene sottolineare che la debolezza finanziaria di Dubai era ben nota al mercato. Come è altrettanto conosciuta la tendenza di questi Paesi a creare facilmente delle bolle. Che, poi, puntualmente scoppiano».
E allora perché fino a questo momento non si era parlato di un rischio Emirati Arabi? Lei che spiegazione può dare a questo proposito?
«Perchè, l’anima sana di quei territori, Abu Dhabi, finora era sempre arrivata in soccorso di Dubai.
Evidentemente, in questa circostanza, ha deciso di chiudere i rubinetti, aprendo le porte a una ristrutturazione di cui dividere i costi».