Sara Bennewitz, la Repubblica, 27/11/2009 - Giorgio Lonardi, la Repubblica, 27/11/2009 Ettore Livini, la Repubblica, 27/11/2009 Luigi Spaventa, la Repubblica, 27/11/2009 Laura Verlicchi, Il Giornale, 27/11/2009 - Rodolfo Parietti, il Giornale, 27/1, 27 novembre 2009
VARI PEZZI SU DUBAI
(la Repubblica - Il Giornale- segue) -
DUBA RISCHIA LA BANCAROTTA BORSE EUROPEE IN PICCHIATA, di Sara Bennewitz, la Repubblica, 27/11/2009 -
MILANO - Per l´intreccio tra finanza e speculazione immobiliare lo scorso anno è fallita la Lehman Brothers. E ora, per la stessa ragione, rischia l´emirato del Dubai. lo scoppio di una nuova bolla che ieri ha gettato nel panico le Borse di tutto il mondo.
Un conglomerato finanziario controllato dallo stato che si chiama Dubai World ha chiesto alle banche una moratoria di sei mesi perché non riesce più a pagare gli interessi su 59 miliardi di dollari di debiti. La notizia si è abbattuta sui mercati: il principale indice europeo, il Dj Stoxx 600, ha bruciato 150 miliardi di capitalizzazione. Mentre Wall Street resterà chiusa fino a lunedì per celebrare la festa del Ringraziamento, le piazze del Vecchio continente sono state aggredite da una pioggia di vendite: Milano (-3,6%) Parigi (-3,4%), Francoforte (-3,2%) e Londra (-3,1%) hanno tutte perso oltre tre punti percentuali. E anche il prezzo per assicurarsi contro il fallimento dei bond governativi dell´Emirato (un prodotto derivato chiamato credit default swap) è cresciuto del 130% a quota 571. Solo in tarda serata, fonti ufficiali del Dubai sono intervenute per rassicurare gli investitori. Lo sceicco Ahmed bin Saeed al-Maktoum, presidente del consiglio supremo di Dubai pur «comprendendo i timori dei mercati e dei creditori in particolare» ha precisato che le autorità locali faranno «un´azione decisiva» per garantire i debiti.
Dubai, negli ultimi anni, era diventato il simbolo dello sviluppo immobiliare senza freni. Il Dubai World sta per ultimare il grattacielo da 818 metri, destinato a diventare il più alto del mondo, ma come una nuova torre di Babele il record non ha portato fortuna. E adesso questo gigantesco edificio, così come le tre penisole artificiali a forma di Palma situate davanti alla Marina di Dubai, rischiano di crollare sotto il peso dei debiti di quella che in molti hanno ribattezzato la Las Vegas d´Arabia. Il piccolo Emirato ha scommesso sul turismo, sullo shopping, sul gioco d´azzardo, sui servizi finanziari e su una fiscalità agevolata, per sopperire alla mancanza del petrolio facendo giganteschi investimenti in infrastrutture attirando capitali di tutto il mondo. Ma il costo di questi investimenti ha portato l´Emirato ad avere un debito pari al 110% del Pil. Con lo scoppio della crisi economica e della bolla immobiliare, Dubai si è trovata impantanata nelle sabbie mobili. I progetti edilizi finanziati largamente a debito, adesso rischiano di diventare un boomerang per l´intera economia del paese e per chi l´ha supportata. I problemi di Dubai World hanno contagiato nelle Borse tutte le banche, le aziende di costruzioni, e i gruppi del lusso che in passato hanno fatto affari con l´Emirato. Secondo Credit Suisse, gli istituti europei hanno prestato al Dubai circa la metà dei suoi 80 miliardi di dollari di debito pubblico. Gli altri 40 miliardi di dollari potrebbero invece essere finiti in mano ai colossi americani, asiatici e a gli istituti locali. Per questo motivo, ieri l´agenzia di rating Standard & Poor´s ha messo sotto osservazione la qualità del debito delle quattro principali banche del paese e degli Emirati in generale. Si tratta di Emirates Bank International PJSC, Mashreqbank, National Bank of Dubai e Dubai Islamic Bank. E ora il mondo intero si chiede se gli Emirati Arabi, in particolare Abu Dhabi che è il più ricco di tutti, saranno disposti a scendere in campo per salvare il Dubai dal crack finanziario.
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DALL’HOTEL ARMANI AI CANTIERI IMPREGILO TUTTI GLI AFFARI ITALIANI NELL’EMIRO i Giorgio Lonardi, la Repubblica, 27/11/2009
MILANO - Lusso e cemento, alberghi a sette stelle e club vacanze targati Viaggi del Ventaglio, gasdotti e golfini di cachemire. Fino all´altro ieri Dubai e la meno fascinosa ma più ricca Abu Dhabi erano l´ultimo Eldorado del made in Italy. Lo sa bene Giorgio Armani che ha scelto il Burj Dubai, cioè il grattacielo più alto del mondo (oltre 800 metri d´altezza inaugurazione prevista il 4 gennaio 2010) per ospitare lo sfarzoso hotel che porta il suo nome: 160 splendide camere con una vista impareggiabile sul mare e sul deserto. Più prosaicamente Maire Tecnimont ha appena firmato un contratto da 4,7 miliardi di dollari per costruire un gasdotto con annesso stabilimento ad Abu Dhabi in joint-venture con i giapponesi. Quanto a Roberto Cavalli è famoso in tutta Dubai per il suo rutilante bar-discoteca con annesso ristorante. Mentre fra gli azionisti della Ferrari spicca il fondo Mubadala di Abu Dhabi con il 5% del pacchetto azionario.
Cosa accadrà adesso nel Dubai sull´orlo del default? I turisti continueranno ad affollare questo fazzoletto di asfalto e cemento ad alta densità di shopping stretto fra il deserto e un mare che di sicuro non fa rimpiangere il Mediterraneo? Sicuramente se lo chiederanno i manager dei Viaggi del Ventaglio che gestisce un club vacanze sulle rive del Golfo Persico. Mentre appare inevitabile una ulteriore frenata del nostro export verso gli Emirati Arabi Uniti (la federazione di cui fa parte Dubai) che nei primi sette mesi del 2009 aveva raggiunto i 2,4 miliardi di euro, in calo del 13,6% sullo stesso periodo del 2008.
Ad ogni modo le società più esposte sono quelle che operano nel settore dei grandi lavori. Come Impregilo che sta realizzando un impianto di desanilizzazione da 150 milioni di euro a Dubai, completato all´80%. La stessa Impregilo che risulta in gara per una commessa da 2,7 miliardi di dollari che ora potrebbe saltare. Emblematico il caso di Permasteelisa (facciate per grattacieli) che a settembre aveva l´8,7% degli ordini provenienti dal Medio Oriente in buona parte dal Dubai. Per fortuna, però, la stessa Permasteelisa ha la buona abitudine di pretendere un sostanzioso anticipo per coprirsi dal rischio di una cancellazione dell´ordine.
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I FONDI SOVRANI SPAVENTANO IL MONDO di Ettore Livini, la Repubblica, 27/11/2009
Due anni fa era il Bengodi della finanza mondiale. Un fazzoletto di sabbia sulle rive del Golfo Persico dove la roulette del denaro facile aveva fatto decollare progetti immobiliari per 350 miliardi di dollari. Oggi il giocattolo si è rotto. La bolla del mattone è scoppiata. I cantieri sono fermi, i prezzi delle case sono crollati del 50%. E il Dubai ? candidato fino a pochi mesi fa a diventare la Wall Street (o la Disneyland, suggerisce qualcuno) del Medio Oriente ? non ha più i soldi per onorare i suoi debiti.
A tremare sono in tanti. In prima fila, ovviamente, le banche che hanno finanziato gli 80 miliardi di esposizione dell´emirato. E le aziende, migliaia tra cui molte italiane, che hanno investito sui suoi piani di sviluppo. Il pericolo vero, però, è che lo tsunami-Dubai tracimi verso gli altri paesi del Golfo, facendo scricchiolare le casse di quei fondi sovrani che negli ultimi due anni hanno recitato un ruolo da protagonisti nel salvataggio dell´economia mondiale. Puntellando a suon di petrodollari il capitale di banche e imprese sull´orlo del crac.
Gli analisti, per ora, gettano acqua sul fuoco. Gli Emirati sono realtà differenti tra loro, assicurano. Dubai è una mosca bianca, la sua crisi affonda le radici in un´economia "di carta", povera di greggio (rappresenta solo il 6% del pil) e travolta dal crac di un settore, il mattone, arrivato a rappresentare il 30% della ricchezza nazionale. I vicini, aggiungono, sono messi meglio. Abu Dhabi ? nel cui sottosuolo c´è il 9% delle riserve petrolifere globali ? è una macchina da soldi. Mentre Qatar e Kuwait non hanno conosciuto gli eccessi finanziari della dinastia degli Al Makhtoum.
Le borse però hanno drizzato le antenne. Le cifre in gioco, in effetti, sono altissime (i fondi sovrani del Golfo gestiscono un patrimonio superiore ai mille miliardi di dollari) e molte blue chip su entrambe le sponde dell´Atlantico sono ancora in vita grazie solo ai capitali degli emiri.
La cassaforte pubblica del Dubai ha in portafoglio il 20% della Borsa di Londra (che controlla anche Borsa Italiana spa), quote di Standard Chartered, Daimler, Eads ? la casa madre di Airbus ? e persino il 20% del Cirque du Soleil. In Italia gli Al Makhtoum hanno trattato a lungo per rilevare le aree di Zunino a Sesto San Giovanni e Santa Giulia. Il ricchissimo Abu Dhabi investment fund ? con la sua potenza di fuoco da 700 miliardi di dollari ? ha il 2% di Mediaset ed è stato il protagonista del salvataggio a stelle e strisce di Citigroup. I sovrani del Qatar hanno appena speso 7 miliardi per tenere a galla la Porsche dopo la disavventura della speculazione su Volkswagen e nella loro collezione di trofei finanziari hanno pure partecipazioni significative in Barclays, nella Borsa di Londra e nei grandi magazzini Sainsbury. Il Kuwait investment office ha contribuito a strappare dal crac la Merrill Lynch ed è socio di Bp e Daimler.
Il timore dei mercati ? al di là delle conseguenze per le banche esposte con Dubai (Credit Suisse stima in 40 miliardi il rischio di quelle europee) ? è che Dubai World sia in realtà solo il primo tassello di un domino di default immobiliari nel Golfo. Standard&Poor´s stima che i progetti messi in stand by ? opere stravaganti come le piste da sci nel deserto, isole artificiali a forma di planisfero e grattacieli modellati sulle figure degli scacchi o alti un chilometro ? siano pari a quasi 500 miliardi di dollari. Una montagna di soldi che rischia di costringere gli emiri ?? reduci dal salvataggio del capitalismo occidentale ? a liquidare le loro posizioni azionarie. Per salvare, questa volta, l´economia di casa propria.
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NON SLACCIARE LE CINTURE di Luigi Spaventa, la Repubblica, 27/11/2009
opportuno riallacciare le cinture di sicurezza: si stanno manifestando condizioni favorevoli a rinnovate turbolenze, che porranno problemi difficili alla politica monetaria. Superata l´emergenza massima della crisi finanziaria, grazie a un´azione decisa ed eterodossa delle banche centrali, si confidava nella possibilità di perseguire un cammino difficile, ma sicuro: graduale riduzione dell´indebitamento delle famiglie nei paesi affetti da bolla immobiliare; graduale riduzione della dimensione dei bilanci bancari, purgati dall´eccesso di finanza e di leva finanziaria; graduale riduzione della somministrazione illimitata di ossigeno da parte delle autorità monetarie; e poi (ma solo poi) le Grandi Riforme, a cui intanto si lavora. A tavolino questo percorso lo si disegna bene; nella realtà pare assai meno lineare, deviato forse proprio dalla persistenza delle misure che hanno impedito il collasso.
Non avendo ancora le banche centrali iniziato una "strategia d´uscita" dalla provvista illimitata di liquidità, per il timore di strozzare una ancor timida ripresa, oggi le istituzioni bancarie possono approvvigionarsi di mezzi a un costo fra lo zero e l´uno per cento. Senza doversi impegnare in prestiti al settore reale, di cui vi è poca domanda e che sono comunque più rischiosi, vi è la possibilità di impieghi in attività finanziarie con rendimenti ben più alti di quelli della provvista: non solo obbligazioni societarie, ma anche titoli pubblici di massimi emittenti, quelli timbrati con tripla A, che, pur se cari, assicurano un margine di tutto rispetto. I profitti crescenti delle banche, che suscitano tanto scandalo, sono garantiti proprio dalle politiche economiche. un articolo di fede (e anche un articolo del Trattato di Maastricht) che il debito pubblico non debba essere finanziato con moneta. Ma che altro stanno facendo governi e banche centrali? I primi, in conseguenza della recessione e per pagare i provvedimenti di stimolo, stanno indebitandosi a ritmi superiori finanche all´Italia dei tempi più bui e in dimensioni assolute ben maggiori; le seconde danno soldi quasi gratis alle banche affinché queste, con un buon guadagno, si comprino il debito emesso dai governi. Ma il buon guadagno di oggi, e quello su altri titoli di reddito fisso, diverrà una perdita in conto capitale se per l´una o per l´altra di molte ottime ragioni i tassi di interesse cominceranno a salire.
Notano compiaciuti gli operatori che torna finalmente quel che essi chiamano "appetito per il rischio" (quello che, divenuto bulimia, indusse gli investitori a mangiare quantità spropositate di funghi velenosi). E così, si tirano fuori i soldi dal materasso spingendo al rialzo al tempo stesso il mercato obbligazionario e anche quello azionario, pur se non è affatto certo che la ripresa sia qualche cosa di più di un rimbalzo. Ma in Asia si fa di più. Come notava con grande preoccupazione Robert Zoellick, presidente della Banca Mondiale, in Cina soprattutto, ma anche in altre economie del Sud Est, insieme alle quotazioni delle azioni, si sono impennati di nuovo i prezzi delle proprietà immobiliari. Sale il prezzo dell´oro. Persistendo condizioni monetarie permissive, potranno seguire anche le materie prime e i prodotti alimentari.
Questi sintomi di rinnovata fragilità sono oggi più preoccupanti, perché le probabilità di shock avversi sono ancora alte. Non tutte le banche hanno eliminato i veleni passati; alcune stanno accumulando posizioni di gravi sofferenze sui nuovi crediti concessi. Come mostra l´esempio della quasi-insolvenza del Dubai (uno di quei ridenti emirati esaltati dal nostro Presidente del Consiglio per la loro capacità di costruire isole ed erigere grattaceli in un anno, ma che con pari velocità hanno accumulato debito), gli effetti della sbornia immobiliare non sono ancora smaltiti. Qualche botta così e l´appetito tornerà anoressia, con conseguenze pericolose sul sistema.
tempo, da subito, che le grandi banche centrali cambino spartito e comincino a stringere le condizioni monetarie, operando direttamente sulle quantità oppure sui tassi d´interesse, o disciplinando alcuni segmenti del credito. Dovrebbero farlo insieme, e in stretto coordinamento nella fissazione degli obiettivi e nell´uso degli strumenti. Altrimenti si aggraverebbero le condizioni di turbolenza valutaria che già si manifestano: una maggiore stretta in Europa a cui non se ne accompagnasse una negli Stati Uniti rischierebbe di provocare un collasso del dollaro.
In questa situazione, il compito delle autorità monetarie si fa più difficile. Durante la crisi era evidente in quale direzione si dovessero muovere; e lo hanno fatto ottimamente. Oggi la navigazione si fa più complicata.
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L’IMPRENDITORE: «LA CRISI ERA COMINCIATA GIA’ DA UN ANNO» di Laura Verlicchi, Il Giornale, 27/11/2009 -
«La Dubai di un tempo non tornerà mai: la crisi di oggi viene da troppo lontano». A dirlo è un imprenditore che ha seguito da vicino il boom edilizio dell’emirato: Luigi Camurati, presidente di Simpedil, il principale produttore di macchine e attrezzature edili per la lavorazione dei tondini di ferro per cemento armato.
Lei vende molto in Dubai?
«Diciamo che vendevo, ma poi le cose sono cambiate. Fino a tutto l’anno scorso ogni mese partivano per il Dubai 6 o 7 container, ciascuno con la capacità di 26 o 27 macchine: e questo per undici mesi all’anno, escluso solo quello del Ramadan. Da quest’anno, le vendite si sono dimezzate, poi precipitate: se prima il Dubai poteva arrivare a un 10% del nostro fatturato, a gennaio era già crollato a poco più dell’uno per cento»,
Che cosa è accaduto?
«Si è costruito troppo, e troppo in fretta: e troppi edifici sono rimasti invenduti. Mesi fa ho visto almeno 200, se non 250 gru altissime e immobili, come in una città fantasma: le stesse che fino a qualche mese prima erano illuminate notte e giorno. Un altro esempio? Dubai Marina è un distretto nel cuore della città, letteralmente creato dal nulla, un’isola artificiale di grattacieli: e ho visto interi palazzi da 30-35 piani tappezzati di cartelli ”For Sale”».
Ma non c’era la corsa tra i Vip ad accaparrarsi case da sogno?
«Guardi che alcune le vendevano a prezzi stracciati, o addirittura regalate, come la villa dei Beckham nella famosa isola a forma di palma, come forma pubblicitaria per attirare la clientela d’alto livello. Adesso in quell’isola, costruita proprio dalla Nakheel oggi in crisi, le costruzioni meno in vista, quelle ai lati delle strade, sono rimaste vuote».
Ci sono molti italiani in affari col Dubai?
«Dubai è, o dovrei dire era, una mecca per tutte le aziende, anche per la presenza della ”zona franca”, di cui molti approfittavano per far arrivare le merci al porto e poi smistarle nei Paesi di destinazione. Gli italiani sono presenti in tutti i settori, la moda in particolare, ma anche altri, come le forniture agli ospedali. Poi c’è il turismo, che, almeno finora, ha resistito: lo vedremo a dicembre».
E adesso gli imprenditori che cosa faranno?
«Posso dirle che cosa stanno cercando di fare quelli del mio settore, i macchinari per l’edilizia: cercano di vendere altrove. Nei Paesi del Golfo, come il Qatar e l’Arabia Saudita, o nel Maghreb. Insomma, dovunque ci sia petrolio e quindi ancora soldi da spendere».
Quindi il sogno di una ricchezza araba indipendente dall’oro nero è svanito per sempre?
«Direi proprio di sì. Non per nulla Abu Dhabi, che è uno dei maggiori produttori di petrolio al mondo, è stato il primo a intervenire nella crisi di Dubai: ma per quest’ultimo emirato il crollo è paragonabile a quello di Lehman Brothers. All’aeroporto ci sono le automobili abbandonate di gente che è scappata, facendo perdere le proprie tracce per non pagare i debiti. Sarà difficile, se non impossibile, che torni l’Eldorado di un tempo».
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LA BOLLA DI SABBIA DI DUBAI AFFONDA LE BORSE, di Rodolfo Parietti, il Giornale, 27/11/2009
Le mille luci di Dubai, irresistibili come sirene per capitali in cerca di ventura, si sono improvvisamente spente. Un debito da 54 miliardi di dollari, impossibile da onorare e forse epicentro di un default dell’emirato da 80 miliardi, terrorizza da ieri le Borse. C’è stato solo il copione della paura da recitare per mercati orfani di Wall Street, chiusa per il Giorno del Ringraziamento. Tutti giù per terra, i listini, con crolli in Europa superiori al 3% (a Milano -3,6% il Ftse Mib), con le banche bersaglio grosso delle vendite e con un tributo di 150 miliardi di euro pagato in termini di capitalizzazione sfumata.
La reazione delle Borse merita una riflessione. Non fosse altro perché il sospetto crac della ex Disneyland del deserto non è paragonabile alla crisi finanziaria russa del 1998, il cui effetto sistemico fu enorme nonostante la cifra in gioco fosse inferiore (40 miliardi di dollari), né - tantomeno - all’insolvenza argentina con lo strascico dolorosissimo, per migliaia di risparmiatori, del mancato rimborso dei Tango bond.
Il caso Dubai, però, è l’ennesimo esempio di quell’economia dell’eccesso, in cui la leva del debito viene spinta fino al punto di rottura. C’è insomma molto di occidentale nel virus islamico dell’emirato. A cominciare dall’idea di sopperire alla scarsità di petrolio, che contribuisce per appena il 10% alla ricchezza prodotta, pompando il mantice della speculazione immobiliare. Una bolla sulla sabbia. Gonfiatasi negli anni d’oro tra il 2000 e il 2006, quando il territorio del mini-Stato sul Golfo Persico era punteggiato da una miriade di gru da costruzione e i grattacieli spuntavano come funghi. Un’idea di sviluppo scintillante, extra-lusso, ma artificiale. Finanziata con i capitali stranieri, attratti anche dal modello tax free adottato. Da oltre un anno la parabola aveva cominciato la fase discendente. E i prezzi degli immobili, crollati di circa il 60% dai picchi del giugno 2008, ne erano la spia di allarme.
La violenta risposta di ieri delle Borse di fronte alla prospettiva di un crac è dunque da mettere in relazione con il coinvolgimento dei principali finanziatori di Dubai, cioè le banche. Una prima stima del Crédit Suisse colloca l’esposizione degli istituti europei a 40 miliardi di dollari, e tra i maggiori indiziati vi sono Royal Bank of Scotland, Barclays, Ing, Deutsche Bank, Bnp Paribas, Hsbc, Lloyds e lo stesso Crédit Suisse. In pratica, si tratterebbe di alcune delle banche che hanno dovuto ricorrere agli aiuti di Stato per uscire dalla crisi. Meno rilevante sarebbe l’esposizione degli istituti italiani, che tuttavia non sono stati risparmiati dal fuggi-fuggi. Banco Popolare ha ceduto il 5%, male anche Unicredit (-4,85%) e Intesa Sanpaolo (-4,10%).
L’emergere di possibili crediti inesigibili di matrice araba, e dunque di ulteriori perdite da iscrivere a bilancio, riduce da un lato la propensione al rischio (l’euro è sceso infatti sotto quota 1,50 dollari e gli investitori si sono riposizionati sui sicuri bond tedeschi) e dall’altro porta sotto l’occhio dei mercati una variabile fino a ieri non considerata. Forse alimenta perfino il dubbio che questo nuovo bubbone possa allargarsi ad altre economie del Golfo, benché protette dagli introiti assicurati dal greggio. Il problema è che le buone trimestrali di molte banche hanno rafforzato l’idea del «peggio ormai alle spalle». Eppure, il monito lanciato mercoledì scorso dal numero uno del Fondo monetario internazionale, Dominique Strauss-Kahn, era stato chiaro: la metà delle perdite del sistema del credito non è ancora emersa. La Bundesbank aveva infatti preannunciato possibili ulteriori svalutazioni per 90 miliardi di euro da parte delle banche tedesche. Dalle Borse, nessuna reazione anche alle parole del presidente della Bce, Jean-Claude Trichet, sulla necessità di far pulizia nei conti prima di pensare al ripristino della stagione (infausta) dei super bonus. Dopo i silenzi e l’indifferenza, è arrivata la stangata. Lo sceicco Ahmed bin Saeed al-Maktoum ha promesso «un’azione decisiva» sui debiti. Ora resta da vedere quale sarà, oggi, il verdetto di Wall Street. Incrociamo le dita.
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LA BOLLA DI DUBAI UN RISCHIO MA NON UNA CRISI, di Claudio Borghi, il Giornale, 27/11/2009 -
Il grattacielo troppo alto di solito indica una «bolla» finanziaria che prima o poi si paga. Si tratta di una delle tante teorie alternative utilizzate per predire l’andamento dei mercati, nata partendo dalla crisi del ”29 segnata dalla costruzione dei grattacieli di New York. Quanto sta accadendo a Dubai, rischia di confermare questa teoria. In effetti uno dei sintomi di un eccesso di denaro affluito in un particolare luogo o attività è proprio la messa in cantiere di un qualcosa di illogico e, in quanto ad illogicità, Dubai, con i suoi grattacieli alti mille metri in un luogo in cui lo spazio per costruire non mancherebbe e con le sue piste da sci realizzate a viva forza in un deserto da cinquanta gradi non è seconda a nessuno.
Era solo questione di tempo ma prima o poi sarebbe dovuto succedere: gli immensi cantieri e i grattacieli «impossibili» stanno in piedi solo se alimentati da flussi enormi di denaro, flussi che possono essere garantiti solo dalla speculazione e dal miraggio (sempre vano) dell’arricchimento facile. Le difficoltà finanziarie di Dubai però non credo possano essere indice di un rischio sistemico: vanno di certo considerate seriamente perché arrivano in un momento in cui l’economia mondiale è convalescente e quindi vulnerabile, ma riguardano solo un luogo specifico, di certo importante ma troppo delimitato per contagiare troppo lontano dai suoi piccoli confini.
I «subprime» coinvolgevano l’economia americana nel suo complesso, Dubai fa storia a sé: Doha, Abu Dhabi e le altre piazze commerciali orientali non presentano le medesime caratteristiche di leva finanziaria e di esasperazione nei progetti aperti e quindi sono da considerarsi solide. Il prezzo del petrolio inoltre è a livelli tali da assicurare in ogni caso un adeguato cuscino alle capitali dell’economia del golfo, quali che fossero i loro investimenti a Dubai. Qualcuno ci perderà, probabilmente anche da noi: gli abbagli di ricchezza che le bolle finanziarie sembrano promettere attirano sempre l’ingordigia dello speculatore, in molti ci hanno finora guadagnato, qualche rovescio ci può stare. La cosa che va notata è piuttosto che la difficoltà di Dubai segna forse uno dei primi passi falsi della tanto pubblicizzata finanza islamica, che si rivelerà portatrice degli stessi ineliminabili difetti della cara vecchia finanza del mondo occidentale.
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