Guido Rampoldi, la Repubblica 26/11/2009, 26 novembre 2009
LA DOPPIA ACROBAZIA
Costretto a conciliare due necessità opposte ? far accettare le guerra afghana ad un elettorato maldisposto e tenersi lontano dal ruolo di war-president che non gli piace affatto? Obama per adesso se la cava con una doppia acrobazia: annuncia un aumento delle truppe, funzionale ad una strategia che però egli tarda a precisare; e chiede agli europei di dare il loro contributo ad un piano che quelli non conoscono, e per il quale non sono stati neppure consultati.
Agli americani il presidente spiegherà che l´invio di altre truppe non solo non rappresenta un´escalation, ma anzi, avvicinerà il giorno in cui l´esercito afghano saprà sbrigarselo da solo e i soldati occidentali potranno tornare a casa. Agli europei non dirà molto di più, anche perché, si direbbe, non ve n´è bisogno. Dopo Londra altre capitali, e ieri anche Roma, hanno annunciato la loro disponibilità a contribuire alla nuova fase, quale che essa sia. Comprensivi, fiduciosi, quasi docili: almeno in pubblico. In privato molta diplomazia europea si dice semplicemente furibonda per il modo di procedere degli americani. E lamenta il paradosso di un presidente, Obama, tanto multilateralista nella retorica quanto unilateralista nella pratica (in Afghanistan, almeno). Washington potrebbe obiettare che in guerra un´alleanza funziona come una società per azioni, il potere decisionale dei soci è proporzionale alla quota di soldati e di tecnologia bellica che ciascuno impegna: inevitabile che chi schiera l´85% delle truppe combattenti tenda a fare e a disfare a suo piacimento. In realtà gli europei sarebbero tenuti in maggior conto se fossero più uniti. Invece quel loro procedere in ordine sparso, per giunta litigando, non li aiuta ad uscire dall´irrilevanza.
Né a farsi prendere sul serio nel mondo, dove ormai li insegue il sarcasmo per il quale le loro riunioni con Hillary Clinton sarebbero il sequel del film «Biancaneve e i sette nani».
I trentamila soldati che Obama invierà in Afghanistan sono il minimo indispensabile chiesto dal Pentagono per arginare la crescente aggressività dei Taliban, ma non rappresentano alcuna novità strategica, in una guerra che, lo conferma la Casa Bianca, va assolutamente ripensata. La riflessione è in corso ma dove conduca non è chiaro. Gli occidentali sono convinti, e con ragione, che una questione centrale sia la corruzione nel governo afghano e nell´amministrazione pubblica. Perciò hanno imposto al presidente Karzai l´adozione di strumenti in apparenza efficaci ad individuare i corrotti, innanzitutto un nucleo di polizia che sarà affiancato, o diretto, da Fbi, Scotland Yard ed Europol. Però è perlomeno dubbio che americani ed europei considerino davvero cruciale rianimare in Afghanistan uno stato di diritto. Se quella fosse la scelta strategica, avrebbero messo in campo una politica non episodica e gli strumenti per sostenerla. Il problema è che quegli strumenti hanno un costo rilevante. Difficile sperare in una giustizia decente quando alcuni magistrati guadagnano l´equivalente di 40 euro al mese (la media sfiora i 150) e devono raggiungere a piedi paesini del loro distretto perché non possono permettersi un taxi. Né si può confidare in uno Stato immune dalla corruzione fin quando l´oppio continuerà a generare profitti astronomici (essendo impossibile sradicare le coltivazioni senza provocare una rivolta contadina, si potrebbe togliere dal mercato per alcuni anni l´intera produzione, ma costerebbe intorno ai 3 miliardi di dollari l´anno).
Soprattutto, è paradossale e incoerente che si chieda ai governanti afghani di allontanare i cosiddetti «signori della guerra», quando proprio questi capi di milizie, alcuni peraltro brav´uomini, forniscono ai contingenti Nato i «contractors» afghani che ormai sarebbero il doppio dei soldati occidentali, e garantiscono un risparmio notevolissimo all´Alleanza (ogni militare americano in Afghanistan costa in media 770mila dollari l´anno).
In otto anni la contraddizione tra necessità militari e aspirazioni ideali, tra limiti economici e disegni politici, ha costruito la guerra come un grandioso labirinto: l´incolpevole Obama non può trovare all´improvviso il filo rosso che conduce all´esterno. Ma nei prossimi giorni egli dovrà comunque rispondere alle due domande che pone ogni guerra: perché; fin quando? La tempistica l´ha indicato il presidente afghano nel suo discorso programmatico, concordato alla virgola con gli americani: entro cinque anni gli occidentali saranno a casa (entro tre sarà l´esercito afghano a condurre le operazioni). A giudicare dall´andamento del conflitto è perlomeno incerto che nel 2014 l´Afghanistan sarà stabilizzato e i Taliban ridotti ad una minaccia marginale.
Ma sono ancora quelli gli obiettivi degli americani? L´amministrazione sembra impegnata a spostare il focus della guerra. Non più la vittoria sui Taliban, tantomeno l´edificazione di una democrazia: siamo in Afghanistan perché dobbiamo neutralizzare al Qaeda. Se questo adesso è lo scopo, al momento può essere raggiunto soltanto attraverso un accordo con i Taliban. Non i Taliban «moderati», di cui gli speranzosi occidentali finora non hanno trovato alcuna traccia. Ma il mullah Omar e la sua cerchia, tutti citati in quell´elenco Onu di terroristi islamici che Gordon Brown non a caso adesso propone di rettificare. Omar ieri ha rifiutato la proposta di «riconciliazione» che Karzai aveva reiterato. Ma sauditi e pakistani, impegnati da tempo in un lavorio segreto, avrebbero i mezzi per convincerlo a negoziare con interlocutori a lui più graditi. Potrebbe impegnarsi a tenere al Qaeda fuori dall´Afghanistan? Al Qaeda è il minore dei problemi, lasciava intendere sei mesi fa a Kabul il mullah Zaif, ex ambasciatore dei Taliban, per quattro anni detenuto a Guantanamo. Il maggiore, si potrebbe aggiungere, è che i Taliban conoscono solo il Corano e l´arte della guerra: qualunque armistizio firmassero, non lo rispetterebbero. Non lo hanno mai fatto. E non rinuncerebbero mai alla gloria che ricaverebbero da una vittoria sugli infedeli in cambio di un mesto compromesso, di una pace in cui non avrebbero più né ruolo né prestigio internazionale.