Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  novembre 26 Giovedì calendario

GLI OTTO VERBALI DEL PENTITO A FIRENZE CON I NOMI DI BERLUSCONI E DELL’UTRI


PALERMO – Ha impiegato quasi un anno, Gaspare Spatuzza, a fare il nome di Silvio Berlu­sconi collegandolo alle stragi di mafia del 1993, insieme a quello di Marcello Dell’Utri. Il primo verbale sottoscritto davanti ai pubblici ministeri di Firenze che hanno riaperto l’inda­gine su quegli attentati (agli Uffizi, le bombe di Roma e di Milano, il fallito attentato allo stadio Olimpico) il nuovo pentito proveniente dalla cosca palermitana di Brancaccio l’ha firmato il 9 luglio 2008. In quell’occasione l’ormai ex ma­fioso spiegò che Giuseppe Graviano – il suo capo insieme al fratello Filippo, entrambi erga­stolani per le stragi del ”93 e per l’omicidio del parroco antimafia don Pino Puglisi – «ci par­lò genericamente di politica», senza mai preci­sare «quali fossero i suoi eventuali contatti».

«Le rassicurazioni»
Nei due interrogatori successivi Spatuzza accenna ancora all’accordo con la politica e alle «rassicurazioni» ricevute dal suo capo, ma senza tirare in ballo nessuno. Il 16 marzo 2009 dice che «i Graviano sono ricchissimi e non mi risulta che il loro patrimonio sia stato minimamente intaccato», e aggiunge: «Questa possibilità che loro hanno di riferire l’identità dell’interlocutore politico implicato nelle stragi è come un jolly, o un asso tenuto nella manica». L’ultima carta da giocare per i boss di Brancaccio, una sorta di assicurazione. Ma ancora niente nomi, da parte del pentito. Fino al 18 giugno di quest’anno, quando si decide a raccontare la storia dell’incontro nel bar di via Veneto, a gennaio ”94, quando Giuseppe Graviano gli disse che «tutto è chiuso bene con i politici, abbiamo ottenuto quello che cercavamo» rivelando che la controparte erano, appunto, Berlusconi e Dell’Utri.

E’ tutto scritto negli otto verbali trasmessi dalla Procura di Firenze a quella di Palermo e ora finiti agli atti del processo Dell’Utri, insieme a circa mille pagine di altri interrogatori, informative e relazioni sulle attività di riscon­tro alle dichiarazioni del pentito che ha fatto riaprire le inchieste sulle stragi di mafia. Gli un­dici mesi di silenzio sul presidente del Consi­glio Spatuzza li spiega con la volontà di appari­re credibile prima su altre vicende altrettanto spinose, come la bomba di via D’Amelio di cui aveva già parlato coi magistrati di Caltanisset­ta, e col ritorno di Berlusconi a Palazzo Chigi: «Si trattava proprio di uno dei nomi che avrei dovuto implicare; ne ebbi timore, anche per­ché il ministro della Giustizia Alfano, che vede­vo come un bambino, non mi sembrava altro che la faccia di Berlusconi e Dell’Utri... E’ la lo­ro reincarnazione». Per i magistrati della Procu­ra di Firenze - il capo dell’ufficio Quattrocchi, e i sostituti Nicolosi e Crini - Gaspare Spatuzza è affidabile. Molto affidabile. Per questo hanno inviato gran parte del loro fascicolo a Palermo, dove Spatuzza dovrà deporre tra una settima­na nel processo d’appello sul senatore Del­­l’Utri, già condannato in primo grado a 9 anni di carcere. Compresi gli interrogatori, ovvia­mente «negativi», dei fratelli Graviano e dell’al­tro mafioso della loro cosca Cosimo Lo Nigro. Nonché i confronti con lo stesso Spatuzza, nei quali i tre ergastolani si proclamano innocenti ma ripetono di rispettare le scelte del collabora­tore che li accusa.

«Finite le indagini e poi venite a chiedermi... Quando esce tutto ne riparleremo, se sarò an­cora in vita... Io sono trattato peggio dei dete­nuti di Guantanamo», ha risposto agli inqui­renti il quarantaseienne Giuseppe Graviano, il boss che secondo Spatuzza «ha in mano il jol­ly » del politico col quale trattava. Suo fratello Filippo, che di anni ne ha 48, parla un po’ di più, dice che un tempo pensava ai soldi e ora soltanto agli studi e al futuro di suo figlio. Ri­vendica l’estraneità alle stragi e ad altri delitti, ma quando il pubblico ministero gli chiede di parlare in generale di Cosa Nostra risponde: «No, io di certi argomenti non parlo... Fra die­ci, venti o trent’anni, quando magari non ci sa­rò più, magari si potrà fare chiarezza su queste frasi».

I Graviano
I richiami alla tomba dei due Graviano farebbero pensare che collaborare con la giustizia è il loro ultimo pensiero, ma non si può mai dire. E da come gli inquirenti fiorentini dialogano soprattutto con Filippo, par di capire che ancora contano di ottenere qualcosa di più, almeno da lui. Per adesso devono accontentarsi di Spatuzza e dei riscontri accumulati in un anno d’indagine. Il pentito racconta che Filippo Graviano «era molto tifoso di Berlusconi e Dell’ Utri, però non è mai andato oltre a dirmi... Però potremmo riempire pagine e pagine di ver­bale, della simpatia, e possiamo dire dell’amo­re che lega lui con questi soggetti... sulla figura professionale, al di là del manager, su quello che hanno fatto. Cioè, osannava queste perso­ne... ». Giuseppe invece, quando fu reso perma­nente il «carcere duro» per i mafiosi stabilito dall’articolo 41 bis dell’ordinamento peniten­ziario, esplose contro il fratello e contro Berlu­sconi gridando: «E’ un cornuto!»; così ricorda Spatuzza, secondo cui Filippo difendeva co­munque il premier perché aveva detto che quella misura «è una legge immorale ma va ap­provata ».

Per trovare conferme alle ricostruzioni di Spatuzza, i pubblici ministeri fiorentini hanno riascoltato anche i pentiti che negli anni No­vanta avevano parlato dell’implicazione di Ber­lusconi nelle stragi, provocando l’inchiesta ar­chiviata nel 1998 e ora riaperta. Per esempio il killer della cosca di Brancaccio Giovanni Ciara­mitaro, che il 22 ottobre scorso ha ripetuto di quando «Francesco Giuliano detto «Olivetti» (condannato per l’attentato ai Georgofili, ndr) mi spiegò che le stragi fatte in continente era­no volte a costringere lo Stato a cedere sul 41 bis ed altro, e mi disse che dietro alle stragi ci stava Berlusconi ed altri politici. Anche per­ché i mafiosi non avevano la possibilità di individuare obiettivi inerenti il patrimo­nio artistico in continente... Poiché me lo chiedete, non ri­cordo se mi sia mai stato det­to quali fossero le motivazioni della parte politica nel collabo­rare alle stragi».

All’Olimpico
Proporsi come coloro che face­vano cessare la «guerra allo Sta­to », è l’idea di Spatuzza: i politici arrivano e dicono «la sistemiamo noi la cosa, però vogliono questo, questo e questo. E nel momento in cui la trattativa andava a buon fine, si interrom­peva tutto. E’ la storia italiana, queste cose mi­ca sono di oggi!» Il pentito ha pure spiegato nei dettagli come e perché fallì quello che dove­va essere «il colpo finale», cioè l’attentato allo stadio Olimpico di Roma, verosimilmente do­menica 23 gennaio 1994. Tra i riscontri, gli in­vestigatori della Direzione investigativa anti­mafia indicano la presenza a Roma del telefo­no cellulare usato da Spatuzza in quel periodo, tra il 18 e il 24 gennaio ”94. In un’altra relazio­ne della Dia sono riportati gli accertamenti sul­l’incontro tra il pentito e Giuseppe Graviano al bar Doney di via Veneto, avvenuto poco prima della mancata strage allo stadio. Già nell’autun­no ”93 Graviano gli aveva confidato che «c’è in atto qualche cosa che se va a buon fine, ne avre­mo tutti benefici - riferisce Spatuzza - . In quel­­l’istante per me c’è già una trattativa. Confer­ma che mi viene data quando incontro Gravia­no nel bar Doney di Roma, in cui mi conferma che si era chiuso tutto e avevamo ottenuto quello che noi cercavamo». Grazie a Silvio Ber­lusconi e Marcello Dell’Utri, secondo il pentito al quale la Procura che indaga sulle stragi del 1993 mostra di voler credere.