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 2009  novembre 26 Giovedì calendario

COROT IL RE DEI PAESAGGI (TRE PEZZI)


L’uomo che osservò la natura con il cuore e la mente fu il «traghettatore» dall’arte classica a quella moderna
Ha già ventisei anni Camille Corot quando al padre che gli chiede del suo futuro ri­sponde: «Voglio essere pit­tore ». Da allora – è il 1822 – la pittu­ra diventa la sua unica ragione di vita, la sua vera scuola la natura, i boschi soffusi di nebbie argentate, i cieli tra­sparenti, le antiche architetture imbe­vute di sole che osserva con tale atten­zione da coglierne ogni segreto più na­scosto. Inizia a studiare gli antichi mae­stri e l’universo poetico di Poussin e Lorrain, segue le lezioni dei neoclassi­ci Michallon e Bertin e completa la sua formazione con lunghi soggiorni in Ita­lia, dal 1825 al ”28, nel ”34 e ancora nel ”43: sarà proprio il fascino di quei pae­saggi, quell’atmosfera vibrante di lu­minosità e di emozione a maturare quel suo nuovo, straordinario linguag­gio che ne farà il punto di riferimento ideale per le giovani generazioni.
«L’ultimo dei classici e il primo dei moderni» è stato definito Corot. E a lui oggi è dedicata la bella mostra del Palazzo della Gran Guardia – la pri­ma nata dall’accordo tra il Museo del Louvre e il Comune di Verona per la coproduzione di grandi esposizioni – che ne sottolinea il ruolo di ponte tra passato e futuro, di «traghettato­re » della grande tradizione paesaggi­stica del Sei e Settecento agli impres­sionisti, ai fauves, ai cubisti fino alle prime avanguardie del Novecento. « sicuramente una grossa novità que­sto evento veronese che supera i limi­ti di una più consueta monografica per presentare il pittore in una pro­spettiva insolita, in un arco di tempo lungo quasi quattro secoli in cui si gioca la storia stessa del paesaggio», afferma Paola Marini, direttrice dei Musei d’Arte di Verona e responsabile della mostra, curata da Vincent Po­marède. «Corot non ha solo guardato alla natura con occhi nuovi, renden­done l’intima armonia con la freschez­za della sua tavolozza, ma è stato l’arti­sta che ha accompagnato la pittura dei Carracci verso Derain e quella di Poussin verso Picasso. Quasi un centi­naio sono le opere esposte, in un dia­logo ricco di rimandi e sfumature tra il maestro e gli artisti a cui si è ispira­to o che ha influenzato».
Il mix di tradizione e modernità contraddistingue anche l’allestimento che alla sobria eleganza del palazzo unisce soluzioni multimediali di forte spettacolarità, come la proiezione in formato gigante dei cieli dipinti dal­­l’artista o i dettagli delle sue pennella­te, dense di materia o leggere e vibran­ti, come quei brani di Gluck e Berlioz, di Bellini e Donizetti tanto amati da Corot che accompagnano il visitatore nel suo viaggio. Dopo una parte intro­duttiva riservata alla storia del paesag­gio che da semplice fondale della nar­razione si fa genere autonomo, stori­co, eroico e infine dipinto dal vero, l’opera di Corot viene messa a con­fronto con quella dei maestri che lo hanno preceduto o che sono stati a lui contemporanei: una vera scoperta, quasi una mostra nella mostra, si rive­leranno così i dipinti intrisi di luce di Achille-Etna Michallon, tra i vincitori del prestigioso Prix de Rome. Ad emo­zionare sono le celebri vedute nate dai soggiorni italiani, «Il Colosseo visto dai Giardini Farnese», «Tivoli», «i Giardini di Villa d’Este» o «La fontana di Villa Medici», che mostrano tutta l’abilità dell’artista di ricomporre in studio, trasfigurandole poeticamente nel ricordo, le impressioni colte en plein air. «Interpreto con il cuore tan­to quanto con l’occhio», era solito di­re. Ma ecco, tra gli ambiziosi paesaggi destinati al Salon, farsi strada vedute più spontanee, immediate, tratte dai vagabondaggi nelle campagne france­si, ecco emergere l’amore di Corot per gli ornamenti della natura, le rocce, i cieli, le acque in cui si riflettono for­me e colori, i rami e le fronde che si fanno protagonisti assoluti del raccon­to, come in quello «Stagno con l’albe­ro piegato» che sembra aprire la stra­da alla ricerca luministica di Monet. Le linee iniziano adesso a sfrangiarsi, a farsi più libere, ma solo per ricom­porsi in forme asciutte, essenziali: è il Corot più «moderno», anticipatore di quel rigore nel disegno e nel colore che caratterizzeranno l’opera di Mon­drian. Ma altre ancora sono le immagi­ni che la mostra ci offre, come quel ri­tratto scolpito nella luce di un «Giova­ne italiano seduto» che precorre, nel trattamento dei piani e dei volumi, le concezioni spaziali di Cézanne e rivela le altissime doti di pittore di figure del grande paesaggista francese.





Sempre in bilico tra il dire e il non-dire viene visto come un padre del concettuale-

Provate a osservare le vedute di Puvis de Chavannes, i paradisi puri di Cézanne, le monumentalità metafisiche di Böcklin, i simbolismi del primo de Chirico, gli episo­di campestri di Morandi, gli alberi astratti di Mondrian, i frames di Richter. Dietro questi esercizi dello sguardo è possibile scorgere anche le invenzioni senza tempo di Jean-Baptiste Camille Corot.
Squisite sinfonie. Piccoli idilli di mirabile raffinatezza. l’elogio della pittura come ge­sto completo, assoluto, appassionato: dedi­zione lirica al visibile. Sequenze di un piane­ta incontaminato. Prodigi inspiegabili: solo Giorgione, Vermeer e Ingres sanno usare il colore come luce. Tinte e sfumature abbrac­ciano e avvolgono edifici, sospendendo i re­perti archeologici in un placido incanto. Si incontrano sensualità e interiorità. Non vi è traccia delle necessità impressioniste: non si vuole afferrare l’attimo che trascorre sul­la pelle delle cose; né si ricorre a velature tese a determinare continue variazioni. So­no caute scommesse di uno stile che tiene in sé echi della classicità e sa farsi anche profezia del «tonalismo» otto-novecente­sco (da Monet a Matisse).
Corot non è affatto un passatista, né un pre-moderno: è tra i padri del concettuale. Come Morandi, egli è lento, forse ossessi­vo. Calmo, metodico, talvolta intellettuali­stico. I suoi tocchi sono trattenuti: tra il di­re e il non-dire. Ecco, ad esempio, le tele de­dicate a Narni, dove, in anticipo su Cézan­ne, «rifà Poussin sulla natura», senza tutta­via restare ingabbiato in una prigione anali­tica. Colpisce la perfezione delle inquadratu­re, con i fiumi inarcati a compasso, i ponti sotto i quali sembrano esitare i punti di fu­ga, gli alberi come quinte di una scenogra­fia prospettica.
Corot si appropria di un ge­nere preciso – il paesaggio – per ripensarlo in chiave co­struttiva. La sua ricerca si con­centra prevalentemente sul fatto pittorico, sul quadro, sul­la dottrina della composizio­ne, sulla struttura dell’opera. I fenomeni sono iscritti in una griglia immobile. Dinanzi a noi, teatri del silenzio con vo­lumetrie nitide, piani fermi, intuizioni cristallizzate. An­che i cieli hanno una loro con­sistenza: pur vibrando, tendo­no a definire con maggiore esattezza l’equilibrio dell’in­sieme. Le ombre occultano, bloccano, danno corpo.
Corot è ambiguo. Fonda ogni sua avventura sul dialo­go con l’universo che lo cir­conda; si pone in ascolto delle voci del co­smo. Poi, dà ordine alle impressioni: cali­bra i barlumi, elabora intervalli. Salda lo stu­dio del vero con un’attitudine idealistica: la fase della scoperta con il rigore del raccon­to. Serenità percettiva e inquietudine esi­stenziale. Manifestazioni del presente e rap­presentazione: immagini transitorie e figu­re rese eterne sulla tela. Colpi d’occhio e ri­spetto dei modelli antichi. Riprese in diret­ta e ricordo degli affreschi. La grammatica è immediata, specchio del rapporto con il mondo: eppure, sempre rispettosa delle re­gole dell’organizzazione del dipinto. Una lingua potente e laconica, radicale ed estre­ma nel suo essere sempre attenta alle con­venzioni. La poesia dell’istante è filtrata dal­la disciplina della ragione. Qui, ha afferma­to Anna Ottani Cavina, «la memoria visiva di un paese reale può solo coincidere, in ul­timo, con la sua forma, ideale».
Corot cattura scorci privi di ogni contami­nazione. In seguito, quegli scorci vengono normalizzati nell’atelier: si eliminano inter­ferenze, irregolarità, inesattezze. In questo modo, nascono, potremmo dire con Baude­laire, città di marmo e di metallo, dove le inesattezze naturali sono state eliminate.
 da qui che muoveranno gli eredi invo­lontari di questo artista che amava definirsi un’allodola. Puvis de Chavannes e Böcklin, de Chirico e Mondrian, Morandi e Richter, in maniera spesso indiretta, si richiameran­no a Corot: alla sua maestria nel donare un’intelaiatura al paesaggio. Egli è architet­to della natura. E progettista di addii, in bili­co tra verità e arbitrio.


Quei francesi a Roma tra ordine, calma e chiarezza-

Arrivavano per le rovine ma restavano stregati dalla luce

Negli anni Ottanta del Settecento, Ro­ma è al centro di una rivoluzione pa­cifica che contagia i pittori d’Europa. A metà del secolo, gli scavi a Ercolano, Pompei e dei templi di Paestum aveva­no trascinato con sé la risco­perta del dorico, ovvero del più antico e austero degli ordi­ni architettonici greci: in mol­ti furono presi da un deside­rio di semplificare, ridurre gli eccessi, i dettagli, le nuvolet­te, i fiocchi, le parrucche, i ro­sa e gli azzurri in cui si era profuso il secolo di Tiepolo e Fragonard. Diderot aveva co­niato il motto per questa rivo­luzione: «Peindre comme on parlait à Sparte» («Dipingere come si parla a Sparta», ovve­ro in modo laconico, conciso) e le parole d’ordine furono «ordre, calme, clarté», ordi­ne, calma e chiarezza.
Furono infatti i pittori fran­cesi a cavalcare questo nuovo vento spingendolo in una di­rezione particolare e lo fecero da Roma, dalle magnifiche al­tezze dell’Accademia di Fran­cia costruita sul Pincio. Lì si ri­trovavano i giovani pension­naires che avevano vinto il Grand prix de Rome e aveva­no varcato le Alpi per educar­si alla pittura di storia. Ma una volta giunti nella città eterna, invece che dalle scultu­re degli antichi e dalle tele dei maestri del Rinascimento, si lasciavano incantare dalla lu­ce e dal paesaggio. Abbando­navano le stanze chiuse dei lo­ro atelier e si incamminavano per i sentieri di una città anco­ra agreste, scansando le peco­re fra le rovine del Colosseo o dei Fori Imperiali. Amavano anche spingersi fino a Tivoli e nella campagna; partivano leggeri, con il solo equipaggio di un seggiolino pieghevole, la scatola dei colori, un album di fogli e un cappello per ripa­rarsi dal sole. Era lì, e non nei loro studi all’Accademia che si compiva la rivoluzione, ov­vero dipingere per elisione, quasi correggendo geometri­camente paesaggi e rovine, senza nulla concedere all’emo­zione e al sentimentalismo.
«Componevano un dipinto di paesaggio come se si fosse trattato di disporre le tessere colorate di un mosaico», scri­veva il critico Théophile Silve­stre, e cioè riproducevano la natura attraverso una sintesi essenzialmente cromatica, di macchie di luce, tralasciando i mille particolari, la minuzia esecutiva dei dettagli e il pitto­resco che erano state le carat­teristiche delle vedute sette­centesche, comprese quelle di Canaletto e Piranesi. Il loro pa­esaggio diventava di una ele­mentarietà archetipica, sinte­tico, geometrico, solare e ina­bitato: niente più pastorelle, ninfe dei boschi o zuccherose figurine in costume.
Jacques-Louis David era il referente, il maestro indiscus­so attorno cui si raccoglieva­no giovani come Debret, Wicar, Drouais, Gauffier ma sul finire del secolo a pratica­re quella maniera ci si misero anche danesi, tedeschi, norve­gesi e qualche britannico co­me Thomas Jones. L’ultimo e il più grande di tutti fu Camil­le Corot che intraprese il suo primo dei tre viaggi in Italia nel 1825 e si stabilì a Roma fi­no al 1828. Realizzò 150 picco­li dipinti di paesaggio e 200 di­segni, molti dei quali «jolis rien», piccole cose graziose, quegli schizzi di Roma che i pittori tenevano nei cassetti e che, tornati nei loro Paesi d’origine, utilizzavano come appunti per ricordare luci, pa­esaggi e monumenti da ripro­durre in quadri più accademi­ci.
Non fu infatti con quei lavo­ri romani, che a noi oggi paio­no i più affascinanti e che non vennero ampiamente co­nosciuti se non dopo la sua morte, che Corot trovò la fa­ma a Parigi. Il Corot francese sembra addirittura un altro pittore rispetto a quello italia­no e nel 1850 la metamorfosi divenne definitiva: le forme solide e rigide si ammorbidi­rono fino a farsi soffici; la lu­ce chiara dell’Italia trascolorò in quella argentata del Nord e questa nuova maniera decre­tò il suo successo popolare.
Lo stesse accadde agli altri pittori che in Italia avevano imparato a «dipingere come si parla a Sparta».
Quell’esperienza si era fon­data sui valori neoclassici e su una città, Roma, che aveva calamitato l’entusiasmo di molti giovani raccogliendoli attorno a un repertorio di te­mi e a un nuovo vocabolario pittorico fondato su forme re­golari, calibrate su una gram­matica minimale e sulla scan­sione degli intervalli in gri­glie chiuse e regolari. Ma quel gruppo di artisti internaziona­li non poteva trasporre con la stessa coerenza quell’espe­rienza in altri ambienti. La pratica di Corot a Tivoli non gli tornò più utile nel­l’Ile­ de-France. Secondo il suo maggiore studioso, Peter Galassi, «Il suo lavoro italia­no è magnifico, ma segna la fi­ne di una tradizione. La sua opera francese è imperfetta ma ne comincia una nuova».