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 2009  novembre 26 Giovedì calendario

La storia di una maestra d’asilo che vuole aiutare i suoi connazionali nel nostro Paese- Da qualche anno la Roma­nia sta rivelando al mon­do una serie di registi di grande valore, capaci con le loro opere di ribaltare molti dei luoghi comuni della critica (tipo che il ci­nema sanno farlo solo a Hollywo­od) ma soprattutto mostrando un lucidità d’analisi sul proprio Paese davvero eccezionale

La storia di una maestra d’asilo che vuole aiutare i suoi connazionali nel nostro Paese- Da qualche anno la Roma­nia sta rivelando al mon­do una serie di registi di grande valore, capaci con le loro opere di ribaltare molti dei luoghi comuni della critica (tipo che il ci­nema sanno farlo solo a Hollywo­od) ma soprattutto mostrando un lucidità d’analisi sul proprio Paese davvero eccezionale. E soprattutto invidiabile. L’ultimo arrivato in ordine di tempo sui nostri schermi (ma al Fe­stival di Torino si è vista una Meda­glia di merito che non dovrebbe sfuggire ai nostri distributori più at­tenti) è Francesca di Bobby Paune­scu, un esordio che si è conquistato uno scampolo di notorietà sui gior­nali per le battute sulla deputata Alessandra Mussolini e sul sindaco di Verona che vengono accusati di razzismo. Le solite polemiche italia­ne di chi non ha visto il film e si è fermato alle primissime scene, per­ché se c’è qualcuno che esce davve­ro male da questo film è proprio il popolo romeno e il suo sogno di un’Eldorado fatta di soldi e di be­nessere. A fare da «guida» in questa sco­perta di una Romania che ha perso la sua identità, c’è Francesca (Moni­ca Birladeanu, ma i fans di «Nip/Tuck» la conoscono come Monica Dean, l’infermiera lesbica Jennifer), una maestra d’asilo tren­tenne che vorrebbe andare in Italia con l’idea di aprire un asilo per i figli dei suoi concittadini emigrati. Una specie di rediviva Francesca Cabrini, la patrona degli emigranti fatta santa da Pio XII, che a cavallo del Novecento costruì orfanotrofi e asili in America, lottando per l’in­tegrazione dei suoi connazionali andati a cercare lavoro Oltreatlanti­co. E il fatto che la romena France­sca trovi lavoro a Sant’Angelo Lodi­giano è un’esplicita sottolineatura del riferimento alla Santa, nata nel­lo stesso paesello nel 1850. A questo punto il destino della protagonista del film sembra deci­so: nonostante i timori del padre (che appunto le ricorda gli atteggia­menti della Mussolini) o della sua direttrice scolastica (che le riferi­sce la più popolare delle leggende metropolitane: in Italia i romeni verrebbero usati come cavie per il traffico di organi), Francesca è pronta a partire. Ma nei pochi gior­ni che la separano dal viaggio sarà costretta ad aprire gli occhi su una società che, per usare le parole del regista (nato a Bucarest ma cresciu­to a Milano e laureato in Svizzera), «risente della mancanza di punti di riferimento e di valori» e rivela «un mondo violento, aggressivo e non sicuro». Comincia un sedicente addetto all’immigrazione che naturalmente chiede una mazzetta («non per me, per l’agenzia») per proporle un pri­mo impiego, ma è soprattutto il fi­danzato Mita (Dorian Boguta) a ri­velarle un mondo di corruzioni e di intrallazzi, dove il mito dell’affare facile facile, con cui guadagnare in fretta, si sbriciola davanti ai ricatti, ai sotterfugi, alle furbizie. E la sce­na col padrino, a cui Francesca chiede un prestito di mille euro sperando così di levare Mita dai suoi problemi, fa intuire i rapporti non proprio solari a cui le donne devono sottoporsi. Ma più che la forza delle cose è lo stile delle riprese la forza del film. Paunescu sceglie di filmare tutto con apparente oggettività, spostando pochissi­mo la sua macchina e per questo «suben­do » gli impedimenti che la realtà mette tra l’obiettivo e le perso­ne. Che si tratti di pa­reti o di ombre che non si riescono a scansare, o di distanze che non si riescono a colmare, l’effetto è quel­lo di una ineluttabilità a cui non si può sfuggire. Una macchina da pre­sa mobile, che segue le persone, ci trasmette l’idea di una realtà in con­tinuo divenire, che si può modifica­re come si modifica il punto di ri­presa. Ma una macchina da presa «bloccata», che non stacca mai il suo obiettivo, obbliga chi guarda a osserva­re anche quello che non vorrebbe vedere, riducendo l’emotività a favore dell’oggettivi­tà. E quello che Fran­cesca non vorrebbe più vedere, partendo per l’Italia, il regista ce lo mette sotto gli occhi, con una durezza e un coraggio dav­vero encomiabili.