Massimo Montanari, Il Sole-24 Ore 26/11/2009;, 26 novembre 2009
NEL PIATTO C’ IL FRUTTO DI UN’IDEA
Da millenni gli uomini hanno trasformato la necessità biologica del cibo in un fatto squisitamente culturale. Ciò è accaduto in tutte le fasi del percorso che prende avvio dalle risorse cosiddette naturali (esse stesse, in realtà, culturalmente costruite) per concludersi nella bocca dell’uomo,dopo che quel-le risorse sono diventate, appunto, cibo, mediante un processo di elaborazione, compiuto spesso con l’aiuto del fuoco, che siamo soliti chiamare "cucina".
Produzione, cucina, consumo. Su ogni fase del percorso alimentare gli uomini hanno molto lavorato (notiamolo: lavoro e cultura sono parole in molti casi intercambiabili). Hanno selezionato piante e animali secondo la loro utilità, hanno modificato gli assetti territoriali creando paesaggi artificiali come i vigneti, le risaie o i campi di grano; hanno giocato con lo spazio e col tempo spostando piante da un luogo all’altro della terra, inventando l’idea di commercio, diversificando i ritmi di produzione, prolungando artificialmente ( con opportune tecniche di conservazione) la vita di piante e animali. Hanno inventato cibi e bevande, come il pane o come il vino, anch’essi totalmente artificiali, frutto dell’ingegno e di raffinate tecnologie.
Evidentemente, la nascita dell’agricoltura è stata un momento decisivo di questa storia. Un momento che ci sembra lontanissimo ma non lo è: non sono più di 10mila anni, in alcune regioni 8mila o appena 6mila ( contro le centinaia di migliaia di esistenza dell’uomo sulla terra) che le tracce organiche e archeologiche ci fanno supporre la presenza di coltivatori e coltivatrici. la rivoluzione del Neolitico, che cambia il sistema alimentare e con esso il modo di pensare. Il racconto biblico, che rappresenta la nascita dell’agricoltura come conseguenza dell’atto di superbia compiuto dai nostri progenitori nel paradiso terrestre, dove vollero assaggiare i frutti di un albero riservato a Dio, si può leggere anche a rovescio: la superbia dell’uomo sta nel farsi agricoltore cioè nell’imparare a produrre da solo il proprio cibo, a farsi, in qualche misura, padrone del proprio destino.
Ma questo è solo l’inizio: prima di diventare "cibo" le risorse alimentari sono sottoposte a trasformazioni più o meno lunghe e invasive, che ne modificano lo stato originario.Già l’uso del fuoco, appreso migliaia di anni prima della rivoluzione neolitica, distingue la specie umana dalle altre specie animali. Nessun altro sa cuocere il cibo.All’inizio di tutto possiamo supporre il caso (il classico fulmine che brucia la carne dei cacciatori) ma ben presto il caso diventa scelta, e la ripetizione del gesto schiude scenarie possibilità infinite. Per questo, come ci ha insegnato Lévi-Strauss, il cotto è simbolo di cultura.
Alcuni studiosi addirittura ritengono che il rapporto fra cucina ed evoluzione culturale non sia solo simbolico, ma, in qualche modo, biologico, nella misura in cui l’abitudine a cuocere il cibo "liberò"energie,prima spese nel-l’attività digestiva, che la specie potè recuperare nell’attività intellettuale. Dominare il fuoco (una capacità che l’antica mitologia rappresentava come "divina") configura nuovamente una colpa, un atto di superbia, un "farsi divino"che viene anch’esso duramente punito, nella figura di Prometeo che indebitamente rivelò agli uomini quel segreto.
Infine, il cibo è cultura per la complessità delle pratiche sociali che contraddistinguono – in modi diversi nello spazio e nel tempo – i rituali della tavola, le simbologie conviviali, le forme grammaticali di una pratica che si configura come un vero e proprio linguaggio. La dimensione comunitaria del gesto è tipica di tutte le società umane, al punto che mangiare da soli diventa il segno di un’esclusione, di un’infrazione punita, di una scelta eccentrica che richiede una particolare giustificazione. Proprio per questo il gesto di mangiare diventa uno straordinario veicolo di comunicazione, che esprime e rappresenta l’identità del gruppo (e anche quella dell’individuo, che tuttavia si definisce solo in quanto si confronta con valori collettivi, con un linguaggio comune che la collettività è in grado di decodificare e comprendere).
Ecco dunque che ogni cibo, oltre che un cibo, diventa un’idea, che assieme ai contenuti nutrizionali veicola messaggi e valori culturali. Ecco che, al di là della sostanza, è spesso la circostanza (per dirla con Roland Barthes) a dare senso all’atto alimentare: la retorica del gesto si sovrappone alla sua grammatica, moltiplicando le possibilità di lettura.
Comunque vogliamo conside-rarla, l’alimentazione è cultura.Il cibo e la bevanda, insegnavano i medici e i filosofi dell’antichità, appartengono al genere delle «cose non naturali».