Raffaella Polato, Corriere della sera 25/11/2009, 25 novembre 2009
Le partite sospese di Telecom tra debito, cessioni e nuova rete- Al consiglio del 2 dicembre i conti e l’Argentina, ma niente piano MILANO – vero: Telecom non l’ha mai detto, che il 2 dicembre sarebbe arrivato «anche» il piano industriale
Le partite sospese di Telecom tra debito, cessioni e nuova rete- Al consiglio del 2 dicembre i conti e l’Argentina, ma niente piano MILANO – vero: Telecom non l’ha mai detto, che il 2 dicembre sarebbe arrivato «anche» il piano industriale. E dunque formalmente l’agenda è rispettata. Ma nemmeno l’anno scorso il consiglio di budget sarebbe dovuto coincidere con il business plan. Franco Bernabé, invece, riunì gli analisti a Londra e lì lo presentò. A maggior ragione il mercato si aspettava un «aggiornamento» adesso. Oggi – da due anni – Telecom vende asset, taglia costi, e può pure andar bene: ma domani? Dove vuole andare, dove vuole essere? Tra i protagonisti o i comprimari? Le domande, in fondo, ridotte all’osso sono queste. Dovranno aspettare, per le risposte. Mercato e azionisti. E anche i discorsi e i progetti nazionali sulla banda larga, i proclami e gli impegni ad annullare il digital divide che continua ad azzoppare buona parte d’Italia, i richiami a quelle «autostrade tecnologiche» che dovrebbero’ se ci fossero – aiutare il sistema-Paese a recuperare un gap di competitività fatto anche di questo, di Internet lenta e (tele)comunicazioni non proprio o non sempre al top. Tutte cose che non dipendono solo da Telecom, okay. Ma Telecom è un perno. Di più: un asset centrale. Per il piano industriale, o se non altro per il suo aggiornamento a quanto già stabilito fino al 2011, l’appuntamento non è fissato, ufficialmente, prima di fine febbraio. Può sembrare secondario, tutto sommato sono «solo» tre mesi. Ma il gruppo è a un bivio, archiviato un passato di guerre, paralisi e debiti ha recuperato una certa stabilità di gestione però attende un vero disegno del proprio futuro. Una mission , come la chiamano gli americani. Non si vede, o quanto meno il mercato sembra aspettare una definizione più netta. Si dice: il nodo è Bernabé. Ed è vero che le cronache finanziarie hanno raccontato di attriti. Che, a due anni dall’ingresso dell’amministratore delegato in Telecom, complice la devastante crisi delle Borse i soci di Telco fanno i conti (anche) con le perdite: investimenti mediamente dimezzati; Gilberto Benetton che dopo otto anni e varie gestioni se ne va, avendo nel frattempo accumulato un rosso stimato intorno al miliardo e mezzo; Mediobanca, Intesa, Generali e Telefonica che restano nel patto di sindacato aspettando e puntando sulle prossime strategie; Marco Fossati, azionista fuori patto ma secondo socio dopo gli spagnoli, che da indipendente abituato a muoversi in proprio e tuttavia certo non in solitaria reclama apertamente piani, progetti, disegni. Perché questo è il punto oggi. Non solo le quotazioni tagliate del 50% rispetto alla nascita di Telco: la crisi l’hanno presa in pieno tutti, non è che Deutsche Telekom o France Télécom l’abbiano patita meno. Ma hanno munizioni diverse. E allora, di nuovo, la questione non è Bernabé. La questione è Telecom. Il suo futuro e, in parallelo, quello delle telecomunicazioni italiane. Ci sono le attenuanti, naturalmente. Dalla privatizzazione in poi il gruppo ha passato quel che ha passato, anche (non solo) in termini di guerre dai governi di turno (oggetto principale del desiderio: la rete, sempre). I debiti salivano, la gestione ne usciva paralizzata. Quando si trova la soluzione Telco, con Bernabé amministratore delegato e Gabriele Galateri presidente (a lui tocca sciogliere rapporti un po’ ruvidi con Authority e istituzioni), per la gestione sembra la svolta di una ritrovata stabilità. Oggi, però, si torna lì: all’attesa per le scelte. Con alcuni richiami alle strategie in atto. Esempio: si taglia, si dice, e va bene, ma insieme si vendono anche asset. Gli ultimi? La tedesca Hansenet, appena ceduta a Telefonica per 900 milioni su un valore di 1,4 miliardi (tra le critiche non solo di Fossati ma pure, nell’ultimo board, del consigliere indipendente Luigi Zingales). E poi, prossimamente e in questo caso obbligatoriamente, Telecom Argentina: il punto sarà fatto proprio nel consiglio del 2 dicembre. Così però, in un quadro di ricavi, margini e quote di mercato in calo (anche nella telefonia mobile, fin qui gallina dalle uova d’oro) sono scattate comprensibili perplessità. Siamo sicuri, ha cominciato a chiedere qualcuno, che non esistano altre strade? Che si debba solo fare cassa e non provare a valorizzare gli asset, magari con fusioni, joint-venture, alleanze? In altre parole: giusti i tagli, ma gli investimenti? il capitolo più delicato. Per mille ragioni. Bernabè ha buon gioco a ricordare i 35 miliardi di debiti, a dire «ci vogliono risorse » ben più consistenti. E si capisce, è logico anche il suo «no» a cedere, scorporare o comunque privarsi della «rete» che porta telefono e connessi in ogni casa d’Italia: è il vero asset Telecom, quello che garantisce generosi profitti e, soprattutto, fa del gruppo lo snodo centrale di tutte le telecomunicazioni nazionali. Però il futuro – non solo di Telecom, appunto – passa da qui. Dalla «piccola rete », la banda larga che serve a informatizzare la pubblica amministrazione (e fin qui bloccata nei meandri dei ministeri insieme allo stanziamento da 800 milioni previsto dallo Stato). Alla «grande rete», la «dorsale» che dovrebbe sostituire il rame con le fibre ottiche in uno switch-off paragonabile al passaggio della Tv dall’analogico al digitale. Nell’uno e nell’altro caso servono risorse (fino a 10 miliardi, dicono le stime), pubbliche e private. Nell’uno e nell’altro caso, gli attori che si muovono in primo piano o sullo sfondo, per partecipare alle newco che potrebbero fare da veicolo, sono più d’uno: il governo, ovviamente, Francesco Caio con i suoi piani e le sue consulenze, e poi Fastweb, Wind, Vodafone, la stessa Mediaset. Eccola, la centralità di Telecom: dalla «sua» rete nessuno può prescindere. E Bernabè, finora, non si è seduto ad alcun tavolo. Ma il gran parlare che si fa di banda larga, ormai pure tra ministri e nel governo, è un crescendo che sembra sempre più accorciare i tempi. E anche Telecom, a questo punto, dovrà decidere quali carte giocare.