Giancarlo De Cataldo, il Messaggero 25/11/2009, 25 novembre 2009
CAPOTE CRONACA NERA DI UN CAPOLAVORO
Nel 1959, a trentacinque anni, Truman Capote è un uomo sulla cresta dell’onda. Colazione da Tiffany, il suo ultimo romanzo, ha conosciuto un successo strepitoso, destinato, di lì a poco, ad essere amplificato da una riuscitissima riduzione cinematografica per mano di Blake Edwards, con un’irresistibile Audrey Hepburn nel ruolo della tenera e bizzarra attricetta fallita Holly Golightly. Il suo stile di vita sregolato rivendica l’omosessualità, non fa mistero di una colpevole inclinazione all’abuso di alcoolici scandalizza l’America puritana del tempo ma infiamma gli avanzati salotti newyorchesi. Le sue battute salaci sono sulla bocca di tutti non meno dei suoi frequenti e intercambiabili amori. Truman Capote è l’intellettuale, lo scrittore del momento. Non male, per un ragazzino della Louisiana, dunque un provinciale, secondo gli standard impietosi della Grande Mela, con alle spalle un’infanzia non propriamente rosea e una precoce consacrazione come giornalista e narratore di talento. Ma non esattamente il tipo di rude cronista di strada che immagineresti attratto da un efferato crimine rurale. E infatti, con grande sorpresa generale, un bel giorno Truman pianta baracca e burattini e si mette in viaggio per lo sperduto villaggio di Holcomb, in un’altrettanto remota contea del Kansas, sulle tracce di un delitto del quale ha letto in una fugace cronaca (17 righe, preciserà anni dopo) del New York Times: due balordi entrano in una fattoria, e per rubare pochi dollari sterminano una pacifica famigliola di quattro persone. Ma che cosa scatta nella mente di Capote, al punto da indurlo a imbarcarsi in un’avventura umana, esistenziale, letteraria che consegnerà a milioni di lettori A sangue freddo, uno dei libri-chiave della contemporanea letteratura americana, ma che, nel contempo, segnerà per sempre la sua esistenza? Le condizioni di partenza non sono le più favorevoli all’impresa. Capote non ha una grande conoscenza dei meccanismi giuridici che reggono la legge criminale americana. Oltretutto, è un sofisticato intellettuale dai costumi dissoluti che ”puzza” di degenerazione newyorchese: lo scontro con la gretta mentalità contadina dei ”rednecks” locali appare ineluttabile. Così come viene da chiedersi che razza di canale di contatto possa mai instaurare uno come lui con i due tagliagole sottoproletari autori del massacro. E invece, quasi miracolosamente, Capote non solo riesce a farsi accettare dalla comunità, ma riesce persino a stabilire un legame profondo, e in parte malato, con gli assassini. Le vere ragioni che spingono uno scrittore ad appassionarsi a una storia piuttosto che a un’altra sono, quasi sempre, incomprensibili per lo scrittore stesso. Figurarsi per il pubblico. Nel bel film Capote, di Bennet Miller, dove il ruolo dell’autore è affidato a un memorabile Philip Seymour Hoffman, la risposta sta nella risonanza emotiva, sentimentale, persino erotica che lega Capote ai due disgraziati assassini, in particolare a Perry Edward Smith. una risonanza intessuta del dolore che entrambi sentono di aver sperimentato sulla propria pelle, un dolore che, nella sua condivisione, annulla le distanze fra il sofisticato intellettuale e il ”desperado” di campagna. A rendere possibile il ”miracolo” è la capacità di Capote di mettersi in gioco, il suo rifiuto di giudicare a priori. Ne deriva un racconto lucido, commovente ad onta della ”freddezza” evocata dal titolo e immediatamente marcata dal memorabile incipit del volume, con quella descrizione apparentemente asettica del piccolo villaggio di Holcomb e della desolata contea che ”nel resto dello stato viene definita laggiù”. Piano piano, Capote entra nella mente dei colpevoli. Ne ricostruisce pensieri, sentimenti, delusioni e frustrazioni. ”Sai cosa penso” chiede Perry, prima di essere catturato, al complice ”penso che ci dev’essere qualcosa di sbagliato in noi due. Per fare quello che abbiamo fatto”. Ogni giudizio è sospeso. Un’ineluttabile predestinazione, essa, sì, dichiaratamente puritana, regge le sorti delle umane vicende. E se il riscatto, in una società come quella americana, è un’utopia, un’ambigua, irrisolta espiazione è pur sempre possibile. Si usa dire che A sangue freddo è l’archetipo di tutta la successiva letteratura ”true crime”. Ora, che si tratti di un libro innovativo non c’è dubbio, e molti fra i migliori autori americani dei decenni successivi resteranno tributari a Capote (da Ellroy a Don Delillo, per intenderci). Ma A sangue freddo è pure un libro, nella sua concezione di base, più tradizionale di quanto si possa immaginare. Fra gli antecedenti letterari diretti si può citare Il caso Redureau, nel quale un altro grande ”irregolare”, André Gide, raccontava, negli anni Trenta, un massacro non poi troppo dissimile da quello di Holcomb. E viene in mente la lunga catena di réportage investigativi su delitti clamorosi che fruttarono agli autori numerosi premi Pulitzer (dal caso Loeb-Leopold del 1924, al ”mass murder” Howard Unruh, 1950). Particolarità di Capote, oltre, ovviamente, al talento narrativo, l’essersi appassionato a un caso marginale, trasformandolo in una metafora emblematica della condizione umana. Capolavoro, si diceva, pagato da Truman Capote a caro prezzo. Prosciugato, quasi essiccato da sei anni di duro lavoro, acconsente alla pubblicazione soltanto quando i due killer vengono giustiziati (1965). Morirà nell’84, a sessant’anni, disfatto dall’alcool e pesantemente incupito, senza mai più toccare le vette artistiche della sua stagione d’oro. ”A sangue freddo” è il suo monumento, il suo contributo perenne alla storia della cultura americana, ma anche la dannata ossessione che lo perderà.