Stefano Cappellini, il Riformista 24/11/2009, 24 novembre 2009
40 ANNI DI MANIFESTO DALLA PARTE DEL TORTO E FELICE DI ESSERLO
Può un gruppo, alias partito, alias giornale passare di sconfitta in sconfitta, attraversare quattro decenni «dalla parte del torto», come recitava l’indimenticabile slogan coniato nel 1991 per festeggiare i vent’anni del quotidiano, e rivendicare - una volta tanto a ragione - di rappresentare un’ esperienza unica, felice, indispensabile? Il manifesto può. Da quarant’anni. Tanti ne sono passati dalla riunione del Comitato centrale del Partito comunista italiano che il24 novembre 1969 si riunì a Botteghe oscure e decise per la radiazione di Aldo Natoli, Luigi Pintor e Rossana Rossanda. Rei di aver promosso già dal giugno precedente la pubblicazione di un mensile di cultura politica zeppo di eresie agli occhi di un Pci mai abbastanza affrancato dall’ortodossia terzintemazionalista: critiche all’Unione sovietica e al socialismo reale, insofferenza per i metodi del centralismo democratico, sinistrismo operaista. «Frazionismo», fu il capo d’accusa che portò alla radiazione (da non confondere con l’espulsione, riservata all’indegnità morale o al sabotaggio). Ai primi radiati ne seguirono presto altri, dirigenti (Luciana Castellina, Lucio Magri) o militanti che nelle federazioni sparse per il paese avevano preso posizione a favore dei dissidenti. Nacque così la proteiforme epopea del manifesto: da frazione a gruppo e quindi a partito, con la disastrosa esperienza elettorale alle politiche del 1972 seguita da una lunga serie di scissioni e sfortunate alleanze, ma anche da rivista mensile a quotidiano, che oggi festeggia l’anniversario della «bellissima radiazione» (definizione di Castellina) con un inserto speciale.
Da quel novembre del 1969 il collettivo del manifesto ne ha viste tante. Non ha mai vinto una gnerra. In compenso, ha combattuto tante battaglie perse ma meritorie, su tutte quelle per una soluzione politica degli anni di piombo. Ha promosso oceaniche manifestazioni, come quella convocata a Milano il25 aprile del 1994, prima Liberazione vissuta sotto il berlusconismo. E ha subito attentati come quello del 2000, quando un neo fascista entrò con una bomba in redazione e ne rimase dilaniato, per fortuna senza danni ad altri. Ha lanciato grandi firme del giornalismo (Lucia Annunciata, Gianni Riotta, Riccardo Barenghi). Ne ha viste tante. E tante ne ha fatte vedere, perché le imperdibili pagine culturali del giornale hanno orientato i gusti letterari, cinematografici di tre generazioni: Clint Eastwood era solo un regista fascistoide prima di essere sdoganato dai rutilanti pezzi dei critici cinematografici Mariuccia Ciotta e Roberto Silvestri (è all’alter ego di quest’ultimo che Nanni Moretti infligge la rilettura della recensione di Henry pioggia di sangue in una delle più celebri scene di Caro diario).
Quarant’ anni senza smettere di coltivare una missione di fondo: uscire da sinistra dalla crisi del comunismo reale prima, e del comunismo tout court dopo il crollo del muro di Berlino. Missione ardua, al punto che anche nei suoi anni migliori il collettivo di Via Tomacelli - sede storica del quotidiano nel centro di Roma prima del recente trasloco dalle parti di Porta Portese - ha preferito affrontarla mal accompagnato piuttosto che solo. Anche a rischio di una certa promiscuità politica. Un po’ come quegli innamorati delusi che vivono per dimostrare al partner di un tempo, che si credeva l’amore della vita, e cioè al Pci, di aver trovato un compagno di vita migliore. E si sa come fmisce spesso in questi casi: più cerchi, più ti fidanzi, più ti convinci che la per
sona giusta è quella persa.
Mai come alla morte di Berlingner questo sentimento di amore-odio verso il Pci si dimostrò in tutta la sua potenza. TI giornale commentò l’evento con due editoriali. Uno di Luigi Pintor, più intimistico, struggente, nostalgico, una variazione sul tema delle cose che «non ci siamo detti e che avrei voluto dirti». L’altro, di Rossana Rossanda, commosso ma più politico, «perché Berlinguer è l’uomo che sbagliò la diagnosi dei grandi movimenti sociali degli anni settanta, producendo guasti immensi», e perché «noi siamo comunisti, ma di quella specie che con le famiglie rompe, e non riaccomoda facilmente».
Fuori dalla famiglia, però, gli accomodamenti di fortuna si sprecano. I primi a finire nel talamo del Manifesto furono Franco Piperno e Toni Negri. La prima alleanza del gruppo fuori dal Pci fu infatti con Potere operaio. La storia tra i due gruppi durò poco, il tempo di fare insieme un convegno unitario nel febbraio del 1971 - il primo numero del quotidiano sarebbe uscito due mesi dopo - e poi lasciarsi come si erano trovati, con Pipemo a teorizzare l’insurrezione armata e il manifesto a cercare consensi sul «voto rosso». Difficile dire a chi andò peggio, certo è che lo 0,7 per cento alle politiche del 1972 convinse il manifesto che «soli mai più» era la giusta mozione d’ordine.
Sfortuna volle che libero su piazza, per un nuovo fidanzamento politico, ci fosse solo il Partito d’unità proletaria, cioè quel che restava della sinistra del Psiup: Vittorio Foa e un pugno di quadri sindacali massimalisti. Ora, è vero che molte storie appassionate partono da una cordiale antipatia. Ma quella le batteva tutte. Alla radiazione del manifesto il Psiup aveva taciuto, felice per l’espulsione degli «intellettuali», e mica per sbaglio, visto che sui fatti di Praga era filosovietico e «carrista». Dalla fusione delle due forze sortì il "Pdup per il comunismo". Che in fondo era un modo del manifesto di dire ai nuovi soci: voi metteteci il Pdup, che il comunismo lo portiamo noi. Finisce male pure con Foa, e quella volta si dimostrò che aveva ragione Rossana Rossanda (a ogni nuovo matrimonio del gruppo c’è sempre almeno un padre o madre nobile che, inascoltato, prevede sciagure. Con Pot.op.la parte era toccata ad Aldo Natoli). Il Pdup per il comunismo viene sciolto prima ancora di essere ufficialmente nato. Il manifesto si rassegna a fare il giornale e subisce l’ironia di Adriano Sofri, leader della concorrente Lotta continua, che lo paragona a «un signore con pancetta che corre appresso al tram da una fermata all’altra senza mai trovare il coraggio di saltarci sopra».
In verità, però, ai compagni del manifesto saranno pure mancati tempismo e forma fisica, ma il coraggio quello no. Tantomeno il coraggio di sporcarsi le mani con la politica di Palazzo, come all’epoca del primo Craxi. Tra gli articoli d’antologia del quotidiano c’è sicuro quello che scrisse Pintor nel 1978, "Chi ha paura di Bettino Craxi", il cui inizio faceva così: «Craxi non incontra simpatie ma ottiene successi. Forse li merita. Forse ha dalla sua qualche ragione. Forse molti suoi contraddittori hanno più di qualche torto. Forse è questo uno dei motivi per cui Bettino Craxi suscita animosità e sproporzionati rancori a sinistra, dove tutti amano l’unità ma preferiscono l’uniformità, e dove nessuno concede nulla all’altro». E ancora: «Trovo inutilmente corruschi molti degli attacchi ideologici e di "principio" che investono il segretario del Psi», E infine: «Sarà il caso di contraddirlo, ma possibilmente con calma, e non obbligatoriamente su tutto».
Subito dopo la svolta della Bolognina i vertici del Pds rinfacciarono al manifesto di negare al partito sorto sulle ceneri del Pci l’apertura di credito concessa «al Bettino Craxi della prima fase, valorizzandone sul piano della politique d’ abord, il ruolo di destabilizzante e di collisione con la Dc» (così Massimo D’Alema). A via Tomacelli, non si riusciva proprio a guardare alla Cosa di Occhetto come all’isola che non c’era . Si preferiva piuttosto gnardare altrove, magari più in piccolo. Ci fu la fase dell’infatuazione per il gesuitismo antimafia di padre Pinatacuda, per la Rete di Leoluca Orlando e per la stagione referendaria di Mario Segni, in cui Craxi era ormai diventato nemico a tutto tondo, e non più il politico ben visto di cui scriveva Pintor dieci anni prima. Negli anni Ottanta c’era stata una cotta per i Verdi. Indimenticabile la «tavola quadrata» (proprio così, «quadrata») con Alessandro Natta, pubblicata sul giornale nel 1985, in cui Stefano Menichini - oggi direttore di Europa - provò a sponsorizzare presso il segretario del Pci le nascenti liste verdi: «Si muovono sulla tematica ambientalista con una disinvoltura che sicuramente non è la vostra». E Natta: «I consigli di disinvoltura non fanno per il Partito comunista».
L’onda ambientalista si è poi spenta lentamente, risucchiata dalla montante prospettiva ulivista. Gli anni Novanta sono accompagnati da un lungo e acceso dibattito: mantenere o no la dizione quotidiano comunista sotto la testata? Alla fme vince la mozione conservativa. Ma non ne beneficia il nuovo campione del comunismo italico, Fausto Bertinotti. Idolo del quotidiano da sindacalista dissidente in Cgil, ma sospetto figuro da segretario di Rifondazione, un partito che non è mai riuscito a conquistare il manifesto. Rina Gagliardi, che negli anni Ottanta era stata la prima tra i non fondatori ad assumere la direzione del quotidiano, provò a metter su una corrente rifondata dentro al quotidiano. TI tentativo fu respinto con perdite. La storia è questa: un giorno Gagliardi va a Torino al seguito di Bertinotti, scrive il pezzo (adorantello) e butta giù pure il titolo: «Un Fausto giorno a Torino». La redazione insorge. Di lì a poco Gagliardi trasloca a Liberazione. E alla caduta del primo governo Prodi, il subcomandante Fausto di legnate ne prende pure più di Occhetto per la Bolognina.
Da molti anni le cose al manifesto non girano più per il meglio. L’area politica di riferimento è ai minimi termini. Alcuni dei fondatori sono scomparsi, e la perdita di Pintor è stata pesante. I conti sono in perenne rosso, sostenuti da una sottoscrizione ormai quasi permanente. Molti giornalisti hanno cercato sistemazione altrove. Ma il quotidiano comunista e il suo collettivo sono ancora qui. Radiati e felici. E allora, come sincero augurio di compleanno valga il chilometrico titolo con cui il manifesto commentò la sconfitta alle elezioni del 1972: «Il nostro insuccesso testimonia le difficoltà del movimento, ci chiama a combattere di più, col pessimismo dell’ intelligenza e l’ottimismo della volontà».