Gabriele Beccaria, La stampa 24/11/2009, 24 novembre 2009
COSI’ SI SPIANO I PENSIERI IN DIRETTA AL DI LA’ DEI SENSI"
Riemerso nel mondo dei «vivi», il giornalista francese Jean-Dominique Bauby ha impiegato 200 mila battiti di ciglia per raccontare la sua esperienza nell’altro mondo, il coma. Completamente paralizzato da un ictus, si è svegliato da quello che tanti considerano un «sonno» profondo e, nonostante il corpo non rispondesse più, ha scritto un bestseller, «Lo Scafandro e la Farfalla». E’ morto due giorni dopo la pubblicazione, nel ’97, lasciando una delle poche testimonianze di uno sconvolgente viaggio di andata e ritorno.
Marcello Massimini, lei è neurofisiologo e ricercatore all’Università di Milano: Bauby, come il paziente salvato da Steven Laureys, era definito un «locked-in». Che cosa significa?
«E’ una condizione in cui il paziente è cosciente, ma è allo stesso tempo imprigionato nel suo corpo. E’ incapace di muoversi e solo dopo un certo periodo instaura una comunicazione con l’esterno, in genere utilizzando i movimenti oculari».
Che cosa accade nel cervello di queste persone?
«Si verifica una lesione nel tronco encefalico che ”taglia” le fibre motorie in uscita dal cervello e di conseguenza i casi di recupero motorio completo sono difficili. In compenso questi individui possono ”reimparare” a comunicare con diverse strategie e l’aiuto di computer. Secondo uno studio, i pazienti, quando recuperano la capacità di comunicare recuperano anche una buona qualità della vita».
Questa condizione è rara, ma evidenzia le difficoltà di fare diagnosi accurate su chi ha subito gravi lesioni cerebrali: può accadere che «il livello di coscienza venga sottostimato». E’ così?
«In effetti l’esame clinico al letto del paziente non è sempre risolutivo. Si basa sulla presenza di risposte motorie e, dunque, se l’individuo è cosciente ma completamente paralizzato, l’approccio è chiaramente insufficiente. A questo punto si può ricorrere a esami più sofisticati, come le tecniche di ”neuroimaging”».
Di che cosa si tratta?
«Con la risonanza magnetica - che valuta i contenuti di ossigeno nelle aree cerebrali - si possono bypassare eventuali lesioni del sistema motorio. Così, invece di valutare la capacità di produrre movimenti volontari e appropriati in risposta a specifici stimoli, si chiede al paziente di entrare in determinati stati mentali e si osservano in diretta le reazioni del cervello stesso».
In pratica che cosa avviene durante questi test?
«Si chiede, per esempio, di immaginare di giocare a tennis o di muoversi nella propria casa: se c’è coscienza, anche se la persona non manifesta gesti visibili, si osservano le stesse reazioni di chi è sano: in un caso si attiva l’area premotoria e nell’altro un gruppo di aree che include la supplementare motoria, la parietale posteriore e l’ippocampo. E’ stato Adrian Owen, nel 2006, a pubblicare su ”Science” il resoconto delle sue scoperte su una ragazza di 23 anni, che, secondo i parametri standard, si sarebbe dovuta trovare in stato vegetativo. Non era così: lo scanner ha rivelato che i neuroni reagivano, anche se era non era in grado di compiere il minimo movimento fisico».
Ma il «locked-in» non è la condizione più controversa. C’è anche il «Minimally conscious state».
«Si verifica quando i pazienti danno segni fluttuanti di risposta: a volte reagiscono e a volte no. E’ una condizione intermedia, descritta da Joseph Giacino nel 2002, tra chi si trova in stato vegetativo e chi è gravemente cerebroleso. Qui lo sviluppo di metodiche diagnostiche più sofisticate è ancora più importante».
Quali sono le prossime frontiere della ricerca?
«Definire una misura il più oggettiva possibile del livello di coscienza, che non dipenda dalla capacità momentanea del soggetto di ”esprimersi”. Questo passo richiederà lo sviluppo di metodiche per valutare la capacità di comunicazione interna del cervello: è dal continuo dialogo tra le sue aree che dipende la presenza della coscienza».