Pierangelo Sapegno, La stampa 24/11/2009, 24 novembre 2009
PARMALAT PAGAVA TUTTI I PARTITI
Il volto è sempre lo stesso, appena un po’ più teso, e anche la erre arrotolata sulle sue emozioni è sempre la stessa. Racconta un Paese che sembra girato alle nostre spalle, l’Italia dell’arco costituzionale, come si diceva allora, e lui che pagava tutti, da destra a sinistra, e comprava aziende su aziende per fare piaceri, «senza aver mai niente in cambio», se non la certezza di poter vivere affogando nei propri debiti. Che è invecchiato, Calisto Tanzi, non lo si vede dal viso liscio e dallo sguardo fermo, o dal portamento ancora eretto, ma lo si percepisce dal tremolio della voce, dalla resa faticosa cui consegna la sua confessione. Forse sarà perché l’Italia che ritorna non è mai troppo lontana da quella che c’è, ma l’immagine di Calisto Tanzi in completo scuro e cravatta regimental che smarrisce le parole barbugliando a fatica che «domani magari mi passa», dopo aver appena ricordato che lui pagava tutti i politici «se non a 360 gradi almeno a 358» e che le banche sapevano tutto dei debiti della Parmalat e ne approfittavano, ci restituisce tutto quello del nostro passato che non passerà più. Il nostro capitalismo senza plusvalore.
Ieri, il Cavaliere era in aula, processo Parmalat. Doveva parlare tutto il giorno. S’è fermato nel primo pomeriggio, quando il pm Vincenzo Picciotti ha detto che viste «le difficoltà espressive dell’imputato», forse sarebbe meglio rinviare. Il presidente del collegio Eleonora Fiengo gli ha chiesto se ce la faceva. Lui ha cercato di dire domani, senza riuscirci («do-do-do, domani»), «magari mi passa», ha balbettato, «ma quando mi viene ci sono momenti in cui non riesco a dire neanche una parola. Questo è dal 2003 che mi succede. Anzi, mi scusi, dal 2004».
Il 2003 è l’anno del crac. La fine di un’epoca, la caduta agli inferi, come la giornata di ieri, piena di grigio e di nebbia, cominciata con orgoglio e finita nella dolenza triste della vecchiaia. Quando arriva in tribunale, gli vanno vicino e gli chiedono che cosa racconterà oggi. Risponde, arrotando le erre, come sempre: «Io racconto solo e dico solo la verità. E basta». E qual è la verità che sta dietro alla Parmalat? «Che era la più bella azienda che esistesse in Italia». Poi, in aula, all’inizio è un fiume in piena, ribatte alle accuse di Fausto Tonna, ripete che era lui, l’amministratore delegato che faceva i giochi di prestigio per falsificare i bilanci, che lui non ne sapeva niente perché non ci capiva niente: «Non ne ero proprio capace. Quelle operazioni le ho solo ratificate». Poi parla delle banche, che la situazione dell’azienda era «un fatto conosciuto» anche da loro, che per questo non credevano «nella rappresentazione del nostro bilancio». Ripete le stesse accuse che disse anche noi, la domenica prima che cominciasse questo processo: la Parmalat era vittima del sistema. E lui era prigioniero del potere.
Così, comincia con il Palazzo: «Abbiamo pagato i politici, ma loro non servivano per i finanziamenti». Gli chiedono di fare i nomi, ma lui risponde di non ricordarne, anche perché c’era qualcun’altro deputato a questo compito. La Parmalat era così da sempre, una grande mucca da mungere che faceva comodo a tanti, o a quasi tutti: «Contatti con i politici ne abbiamo avuti diversi a partire dal 1960 fino al 2003 quando mi sono dimesso. I politici venivano contatti per instaurare quei buoni rapporti di cui l’azienda aveva bisogno. Avevamo delle persone a Roma che facevano questo. Sergio Piccini, un ex sindacalista di Parma, aveva conoscenze con tutti i politici dell’arco costituzionale. Poi è morto in un incidente stradale. Allora ho conosciuto Romano Bernardoni, e abbiamo delegato a lui questo compito. Comunque nessuno di loro ci ha mai aiutato ad avere finanziamenti. Non erano pagati direttamente, ma tramite alcuni signori». Tutti, quasi nessuno escluso, come lascia intendere il cavaliere: «Se non a 360 gradi, di sicuro a 358. I soldi uscivano dal conto Valori Bollati».
E se l’amministratore delegato Fausto Tonna nella sua deposizione aveva detto che una delle principali cause del crac era rappresentata dalle continue acquisizioni che il gruppo faceva senza avere le risorse necessarie per sostenerle, lui ribatte che quelle acquisizioni «erano proposte al 90 per cento dalle banche». Dice che le banche sapevano tutto e sfruttavano la posizione della Parmalat a loro piacimento. Tutti facevano così, aggiunge. Poi fa degli esempi: l’Affare Sipac, in Sicilia, per diventare il numero uno sul mercato del succo d’arancia. «Spendemmo un mucchio anche per lo stabilimento. Ma dopo mancava la materia prima: le arance non arrivavano mai». Calogero Mannino, dice, era preoccupato solo per l’occupazione. E per l’affare Eurolat, «dovevo comprare questa società del Gruppo Cirio a prezzo più alto, altrimenti guastavo i rapporti con Banca Roma. Ho subito pressioni durante le trattative e il dottor De Nicolais è quello che spingeva di più».
E’ solo l’inizio, e la sua storia potrebbe ancora continuare. Ma si ferma incrinando la voce. E’ che il tempo sconti non ne fa a nessuno, neanche a lui.